sabato 14 marzo 2015

Lillo Melidoro, les jeux sont fait! (2 - racconto)



Se don Alfonso ti invita a pescare, non serve la canna...
Seconda puntata delle avventure di Lillo Melidoro, calabresotto trapiantato al nord. Lui, che viene dai fasti della Magna Grecia, di Pitagora, Archimede, Filolao, Alcmeone... costretto a sorbirsi le beghe fra trote, barbari sognanti e gente che appena può mette le mani nel tuo portafoglio. Come può essere dura e beffarda la vita, a volte!

Lillo Melidoro, les jeux sont fait!

Una telefonata l'aveva avvisato che ci sarebbe stata una partita di pesca al circolo, come dire che don Alfonso Suraci lo voleva vedere.

L'autista venne a prenderlo puntuale e lo scarrozzò fino al bar che era il quartier generale del suo signore e padrone, colui che lo pagava molto profumatamente per mettere qualche famosa firma ogni tanto e che lui ricambiava in modo così vigliacco. Non che la cosa gli dispiacesse, alla fine, ma in fondo in fondo lui era uno corretto, che ci teneva al rispetto e all'amicizia, un vero calabrese insomma. E poi la cosa poteva mettersi male se qualcuno scopriva qualcosa.

Don Alfonso non aveva l’aspetto del boss.

Occhialini in ferro tondi, dava l’impressione più di un contabile o di un intellettuale: avete presente Steve McQueen in Papillon?

Capelli brizzolati e fisico asciutto, si perdeva dietro l’enorme bancone del Ribbon in the sky. A lui infatti piaceva servire i propri clienti quando non aveva da sbrigare qualche affare. Non che fosse uno democratico, lo sapeva bene il barista che aveva scambiato questo suo hobby per condiscendenza verso la manovalanza e gli aveva chiesto di sciacquare meglio una tazza sporca di cioccolato. Avevano, sì, ritrovato il suo dito indice, ma nessun chirurgo era riuscito a riattaccarglielo.

Lillo entrò e individuò subito il boss.

Don Alfonso gli andò incontro e sedettero a un tavolo poco lontano dalla toilette, da dove si dominava tutto il locale.

“Carissimo Lillo!” esordì il boss. “Prendi sempre un rum secco?” E poi, senza aspettare: “Un rum secco per Lillo!” ordinò ad una cameriera che stava aspettando l’ordine.

“E per voi?” chiese la ragazza. “Il solito?”.

“Naturalmente!” sorrise con tutti i denti che aveva in bocca, don Alfonso. Poi rivolgendosi all’uomo: “Allora, Lillo, come te la passi?”

“Benissimo, anche grazie a lei. Non mi manca proprio niente, e d’altra parte cosa potrei volere di più?”

“Bene, bene, sono contento che tu sei contento. Perché invece io sono un po’ triste. Quando vieni a sapere certe cose ti prende come una nausea qui” e fece segno alla bocca dello stomaco “e continua a salirti su e giù in continuazione.”

Il boss rimase in silenzio per qualche secondo fissando il tavolo, forse per rimuginare su quello che lui stesso aveva detto o, pensò la fifa di Lillo, per sparargli qualche brutta novità in faccia.

L’arrivò della cameriera con i bicchieri e le bottiglie interruppe momentaneamente la quiete.

Don Alfonso parve risvegliarsi. Versò da bere per tutti e due e prese in mano il suo bicchiere. Poi cominciò a guardare attraverso il vetro il liquido avvolto di bollicine e a far roteare il flute nella mano.

“Eh… quanto può fare una buona coppa di spumante italiano doc in certi casi!”

Quindi alzò il bicchiere per brindare col suo ospite.

“C’è qualcosa che vi turba, don Alfonso? Posso fare qualcosa per voi?” chiese Lillo, impaziente di conoscere il motivo per cui era lì.

Don Alfonso bevve un sorso di spumante e lo guardò.

“So che non rientra nei tuoi compiti e che, anzi, meno ci vedono insieme e meglio è, ma in questo caso so che di te posso fidarmi più che di qualunque altro qui dentro.”

Altra pausa, che fece aumentare l’insofferenza di Lillo: era la prima volta che si trovava in una situazione del genere col boss, e non sapeva come comportarsi.

Poi don Alfonso riprese:

“Naturalmente quello che ti dirò deve restare tra me e te, assolutamente…”

“Assolutamente…”

“Ho il sospetto che Patrizia abbia un amante!” disse d’un fiato e sottovoce don Alfonso.

Tutti gli organi interni di Lillo sbiancarono e forse anche i 5 litri di sangue di cui la natura l’aveva dotato alla nascita.

Era come se il suo incubo si fosse avverato. E per di più non poteva reagire in alcun modo in quel momento.

Come si sarebbe comportato un innocente in quella circostanza? Un estraneo alla faccenda? E di più: uno a cui un pezzo grosso, il proprio capo, stava confidando di essere cornuto?

Perché don Alfonso era cornuto, quella di Lillo non era una sensazione o un’ipotesi, ma una certezza. Se non lo sapeva lui!

Lillo, a quel punto, andò a braccio:

“Ma… don Alfonso… siete sicuro? Non è che qualcuno vi vuole sfottere…”

“Nessuno si permetterebbe di sfottermi, come dici tu, su cose come questa! Non ti pare?”

Don Alfonso sembrava essersi ripreso e sorseggiò un altro po’ di spumante.

“Ora qui arrivi tu. Sentimi bene. Sono sicuro che il puttaniere è uno dei miei più stretti collaboratori, di quelli che, per così dire, ha libero accesso a Patrizia. E nessuno o quasi dei miei ti conosce, sa’ cosa fai per me. Quindi è più facile per te metterti dietro Patrizia e cercare di sapere cosa sta succedendo.”

“Ma avete parlato con Patrizia? Lei che dice?”

“E che, vado a chiedere a lei: scusa, ma tu ti fai trombare da qualcun altro? Lo so che sta con me perché io sono il boss, comando e ho i soldi, ma queste sono cose che non si fanno. Non le chiedo di volermi bene, ma almeno di rispettare le apparenze. Io ho sempre una bella femmina da scopare e da portare in rappresentanza e lei ha tutto quello vuole! Ma a tutto c’è un limite!”

“Quindi io dovrei tenere d’occhio Patrizia e riferire di eventuali cose strane, per così dire?”

“Esatto, solo questo. Poi sarò io a decidere sul da farsi.”

Lillo guardò don Alfonso davanti a lui: in quel momento non sapeva se considerarlo un uomo ferito nell’onore o il suo datore di lavoro.

Nonostante sapesse bene cosa voleva dire per lui accettare quella cosa, quali conseguenze poteva avere e tutto il resto, non riusciva a pensare ad altro che a quell’uomo, al suo sguardo chino, agli occhi tristi e vuoti.

Non riusciva a pensare ad altro che al fatto che può più un pelo di f… (come suol dirsi) che un’intera organizzazione criminale.

Ma una risposta doveva darla, e non poteva rifiutarsi, perché il boss avrebbe potuto pensare chissà cosa, magari mangiare la foglia.

Doveva accettare. Poi avrebbe pensato al da farsi.

“Don Alfonso, voi sapete quanto io vi stimi e comprendo pienamente la situazione. Anche in questo caso potete contare pienamente su di me. Ditemi cosa c’è da sapere e io mi metterò al lavoro, naturalmente con discrezione.”

“Benissimo, Lillo, sapevo che su di te potevo contare.”

Sembrava essersi ripreso don Alfonso, come se condividere con qualcuno le sue ansie le avesse dimezzate, se non fatte sparire del tutto.

“Allora stammi bene a sentire… “

E don Alfonso mise al corrente Lillo di tutte le cose che lui sapeva già benissimo e che anzi conosceva meglio di lui.

E Lillo capì che il boss era talmente vicino alla verità che tra il suo naso e la canna di una pistola passava un piccolissimo pelo di f... .

Non gli restava che parlare con Patrizia.

(... continua... )

giovedì 12 marzo 2015

Lillo Melidoro, les jeux sont fait! (1 - racconto)


Saprete tra un po' cos'è il "Ribbon in the Sky"...

Ed eccoci, anzi ri-eccoci, al mio primo amore: la scrittura.
Quello che voglio proporvi è un racconto a puntate, iniziato lo scorso anno quasi per gioco e poi lasciato a dormire, un po' come i massoni che sonnecchiano sonnecchiano e poi d'improvviso: boom! e si risvegliano anche se non sanno perché.
In questo caso il perché è stato più che altro una sfida: volevo terminare almeno una storia delle mille (esagero!) che ho iniziato e i cui file si trovano nella cartella del desktop chiamata: in viaggio.
Naturalmente prima di esser messo on line il testo è passato dalle sapienti mani di Ariano, mio editor di fiducia.
Devo però confessarvi una cosa: il racconto non è finito!
Mi manca il finale che, come suol dirsi, ho tutto in testa e devo solo mettere su carta, anzi su disco.
E ho deciso di iniziarne la publicazione proprio per costringermi a terminarne la scrittura.
Comunque, senza perder altro tempo, qui inziano le avventure di Lillo Melidoro, dal presente poco chiaro e dal futuro...

Lillo Melidoro, les jeux sont fait! *

Era nato in un giorno d'agosto, caldo come solo un giorno d'agosto sa essere.
E c’era stato un frastuono d’inferno: decine d'auto d'epoca in una gara tutta puzzo d’olio e di benzina.
La città in cui era nato si trovava sul mare, uno dei più bei mari d'Italia; e anzi, come aveva scritto il Vate, con il più bel lungomare d'Italia.
Forse per tutte queste cose messe insieme, ora che viveva in un'altra città, con un altro clima, quando era giù di morale chiudeva gli occhi e si rifugiava in un immaginario profumo di mare.
Un giorno gli avevano chiesto di fare un lavoretto semplice semplice, di quelli che non devi saper fare altro che scrivere il tuo nome, e tenere bocca, occhi e orecchie chiuse.
"Terrò chiusi tutti gli orifizi che vorrete" aveva detto quando l'avevano scelto per quell'incarico.
Perché lui qualche studio l’aveva pure fatto, e sapeva cosa significava la parola orifizio.
E così, di punt’in bianco, Pasquale Melidoro era diventato talmente ricco da potersi permettere di andare in un ristorante e di ordinare dal menù senza guardare la colonna dei prezzi.
Lillo (con questo nome l’avevano chiamato tutti sin dal giorno della nascita, ormai più di quarant’anni fa) era contento di questa sua nuova vita: macchine, che gli piaceva cambiare almeno una volta all’anno; una bella casa con un terrazzo da cui si vedeva la città – quando non c’era lo smog; abbonamenti a tutti i digitali e satellitari possibili che trasmettevano calcio.
Fin qui Lillo si poteva dire soddisfatto.
Unica carenza: una donna.
Naturalmente col portafoglio fornito che si trovava non aveva difficoltà, come si dice, a mettere insieme il pranzo con la cena, se mi capite. Ma lui voleva una donna che lo desiderasse per quel che era; non una cortigiana insomma, ma una che l’amasse veramente.
Purtroppo, però, come in tutte le storie troppo belle per essere vere…

*****

“Dottor Melidoro! Buongiorno!”
La hall dell’alberghetto era anche pulita, ma i divani rossi avevano bisogno di una buona visita dal tappezziere.
“Mimì! Come va?”
“Al solito, dottore. Stessa stanza di sempre?” ammiccò il portiere, nella sua livrea verde pastello.
“Ci troverò qualcuno?”
“Come sempre, dottore.”
“Quando mi chiami dottore non so mai se mi prendi per il culo o se parli seriamente.”
“Non sia mai! Non mi permetterei. E comunque, come si dice: un titolo di dottore è come un vaffanculo, con rispetto parlando, non si nega mai a nessuno!”
“Mimì” celiò l’altro “tu qualche volta ti metterai contro qualcuno a cui non piace lo scherzo e ti ritroverai in qualche brutto posto! Ora ti saluto, ho gente che mi attende!”
Nessuno forse aveva mai detto a Lillo Melidoro che non è salutare trombarsi la moglie del capo. E Patrizia l’aspettava, già in vestaglia fucsia di raso, distesa sul letto, mentre col telecomando continuava a far andare su e giù i canali del tv color 50 pollici, troppo grande per la piccola camera in cui si trovava.
Lillo utilizò la chiave elettronica per aprire la porta e richiuse immediatamente dietro di sé.
“Lillo!” esclamò la donna senza staccare gli occhi dal tv color. “È da un bel po’ che aspetto. Quasi quasi sono stata tentata di chiamare il servizio in camera” continuò, facendo esprimere col tono della voce un concetto di servizio che non piacque a Lillo.
“Sai che non ci può essere nessun altro che ti fa un servizioin camera come me!” disse l’uomo mentre si toglieva con un sol gesto giacca e camicia.
E si diedero da fare.
In verità a Lillo parve che Patrizia quella volta non avesse emesso i soliti mugolii nei momenti clou della performance, ma era troppo preso per darci peso.
Tuttavia quell’idea continuò a pungerlo come un ape rimasta intrappolata nel condotto uditivo e risalita fino al centro del cervello.
E mentre guidava sulla provinciale di ritorno in città cominciò a mettere insieme un po’ di tasselli sparsi per la sua mente.
Erano diversi mesi che andava avanti quella storia: aveva la brutta sensazione che qualcuno lo seguisse quando si incontrava con Patrizia. Gli era sembrato che un SLK argento fosse sempre vicino al motel o che un biondone palestrato li spiasse quando erano al bar. E se questo era vero voleva dire che don Alfonso aveva mangiato la foglia e cominciava a sentirsi la testa pesante.
Doveva parlarne con Patrizia. Ma la prossima volta, e soprattutto prima dell’inizio dei giochi.

(... continua... )

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* il titolo è provvisorio, ah.. e si accettano suggerimenti!

mercoledì 11 marzo 2015

Al numero 74

Sapevate che la città in cui sono vissuto per quasi vent'anni è anche la patria di Rino Gaetano e Sergio Cammariere?
E che in quelle che una volta erano periferie c'hanno girato molte scene de L'Armata Brancaleone?
Non ci sono nato, badate bene, ma c'ho vissuto fino al 1979 (con brevi ritorni nel 1981-2 e 1998-9). Comunque non sarà mai ricordata per avermi ospitato, né ci sarà una targa in mia memoria al n. 74 della via in cui ho vissuto per tutto quel tempo.
A meno che in questi anni che mi restano da calpestare il mondo non faccia qualcosa di sensazionale.
Ma io mi chiedo: non è già abbastanza sensazionale vivere e basta, oggi come oggi?
Perché mi rendo conto che oggi è facile sopravvivere, scansarsela alla meglio; ma vivere, coscientemente e pienamente, è difficile.
C'è una foto che avevo gelosamente conservato per anni e che poi, in uno dei tanti traslochi, è andata persa.
Ci sono io, nella foto, su uno scoglio del molo al porto. È una giornata di vento, si capisce dai capelli che svolazzano liberi (perché a quei tempi i capelli si portavano rigorosamente lunghi quanto basta per dire: io ascolto i beatles e/o i pinkfloyd) e vesto un giubbotto chiuso in vita di stoffa a quadri piccoli sul marroncino. Ho avuto per molti anni quel giubbotto che mi faceva sentire bene, riconciliato col mondo.
Come dicevo non ho più ritrovato quella foto e in qualche modo mi dispiace, perché era un'immagine di me in un'altra dimensione.
No, un attimo, non pensate a robe fantascientifiche!
Era solo un momento della mia vita diverso, cupo e velenoso sicuramente, ma ancora con un luuungo futuro davanti.
Poi penso che il futuro non dipende dalla quantità di tempo, ma di energia che ci metti in quel tempo. Ma questo l'ho capito dopo.
Perciò anche oggi, a quasi 55 anni, ho un luuungo futuro davanti.
Questa fatto di scrivere del mio passato, devo dire, sta funzionando. Anche se finora ho postato solo un paio di pezzi, i ricordi cominciano a riaffiorare quasi quotidianamente, a spizzichi e a mozzichi, ma con più vivacità di prima.
Sono andato su Street View e ho richiamato il famigerato numero 74, sono risalito fino a quel V° piano d'angolo e mi sono fermato a guardare per un po' la foto.
Ho avuto tanti flash legati a quell'immagine, ma anche sensazioni: il caldo soffocante d'estate, le vertigini provate a guardare giù, l'aria fresca della sera (che ora, invece, a distanza di tanti anni, è irrespirabile!).
questa ce l'avevo!
Sotto casa, dove ora c'è un market, c'era un negozio di giocattoli. Da bambino mi fermavo ogni volta che ci passavo, affascinato come ogni bambino non tanto dai giocattoli in sè, quanto dalla loro cromia, dalla loro lucentezza e, già da allora, dal loro essere portatori di storie.
E tra i ricordi, quello di mio zio che quando veniva a trovarci da C., dove vive ancora, si fermava sempre a comprare qualcosa per me e mio fratello. Soprattutto modellini di auto in ferro, perfetti nei minimi particolari (non badava a spese, lui!).
Ho visto che quel balcone di quel V° piano, adesso, ha una tenda da sole a strisce bianche e verdi, una parabola, si intravedono due motori per condizionatori d'aria. Oggi sono decisamente altri tempi: il mondo non finisce in riva al mare e non sappiamo più accettare una vita normale, senza aiutini, per quanto comodi.
Penso che per oggi possa bastare così.
E, come direbbe il maestro: ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto!



 



L'oste Juan

sabato 7 marzo 2015

Fra Dulbino e gli occhi dell'anima (racconto)

Luvino al tramonto

Aprii gli occhi.

C’era qualcosa che mi dava fastidio sotto la gamba.

Allungai la mano e trovai un ciuffetto d’aghi di pino che si era insinuato sotto il saio.

Lo presi e lo gettai via.

Gli altri ancora dormivano sparsi sotto gli alberi del boschetto, e il cielo si stava arrossando un po’ oltre le montagne. L’acqua del lago era immobile e scura; mi dava sicurezza.

Ringraziai Nostro Signore Gesù Cristo per essere morto e risorto per la nostra salvezza e recitai un pater, ave e gloria.

Fate Francesco dice che non dobbiamo recitare queste preghiere per abitudine ma perché sappiamo quello che stiamo dicendo e ne siamo convinti.

Ma anche la coscienza vuole la sua parte e io le ho sempre recitate appena alzato e prima di addormentarmi.

Mi crogiolavo ancora nel ricordo del sogno appena fatto.

Ero sulle rive del lago, a pochi passi da casa mia e giocavo a fare rimbalzare i ciottoli sull’acqua.

Ogni volta che la vita di fraternità (come la chiama Francesco) si fa pesante io scappo con la mente a quell’acqua, al tepore del sole in primavera, al luccichio abbagliante d’estate.

Poi, nel sogno, guidavo una di quelle chiatte di legno che vanno da una riva all’altra del lago a portare persone e animali.

Quante volte da bambino ho immaginato di farlo! Mi vedevo con un lungo ramo in mano a far muovere la chiatta, a spingere con forza mentre scambiavo chiacchiere col pastore che trasportava due pecore o col contadino che teneva stretta a se’ una sacca piena di verdura odorosa.

Mi girai per un rumore poco dietro di me: qualcuno si era alzato e si era allontanato dietro gli alberi; evidentemente doveva vuotare la vescica.

Quando il rumore che mi ero aspettato terminò, comparve frate Filippo; venne in riva al lago e sedette vicino a me.

“Già sveglio, fratello?” mi chiese.

“Si, voglio godere il più possibile dell’aria di casa mia, del mio lago. È quasi un rifugio per me… “

“Ti capisco, fra Dulbino. Anche a me manca la mia città quando siamo lontani: le colline dolci e profumate, gli ulivi argentati… immagino come dev’essere per te che ci vieni così poco spesso! Ma io, grazie a Dio, sono quasi sempre a casa, specie da quando frate Francesco mi ha affidato le sorelle povere di Chiara.”

Frate Francesco, infatti, aveva nominato Filippo visitatore del monastero di San Damiano, dove Chiara e le sue consorelle risiedevano. E poiché egli aveva una tal dolcezza e maestria nel parlare di Dio e nello spiegare le Scritture pur senza averle mai studiate, gli aveva dato anche l’incarico di predicatore presso di loro.

“Sì, è così, hai ragione. Ma dov’è Francesco? L’hai visto?”

“Iersera si era disteso vicino frate Egidio, visto che nessun altro sopporta il suo russare. Ma poi stamane non l’ho visto. Sai quanto lui dorma poco di notte e di come la passi a pregare.”

“Ti posso fare una domanda, fra Filippo?”

“Certamente, Dulbino!”

“Vieni, camminiamo lungo la riva, non voglio svegliare i fratelli e… non voglio che sentano i nostri discorsi.”

Anche se faceva freddo a quell’ora dell’alba, perché il sole non era ancora penetrato nella vallata, camminavo coi piedi nell’acqua. Vedevo la mia Luvino ancora addormentata, ma già qualche rumore  cominciava a sentirsi.

“Ma tu che lo conosci sin dall’inizio, che idea ti sei fatto di frate Francesco?” chiesi.

Frate Filippo dapprima sembrò stranito dalla mia domanda, poi fece qualche smorfia come se stesse rimuginando.

“Sai, anch’io me lo sono chiesto diverse volte, e non ho mai saputo rispondere.”

Frate Filippo si fermò, ed io con lui.

“A volte mi sembra di avere davanti un santo o un angelo per quel che dice e fa e un minuto dopo lo vedi correre come un pazzo in un campo o gettarsi addosso ad un lebbroso per proteggerlo dal freddo. Altre volte gli senti dire certe parole che qualsiasi sacerdote prenderebbe come eresie, come quando ha detto che Dio non vuole che le nostre sorelle stiano chiuse in clausura, ma che anche loro dovrebbero andarsene libere per il mondo come noi maschi ad annunziare che Gesù è morto e risorto per tutti.”

“Hai ragione, frate Filippo! Anch’io ho pensato la stessa cosa. Mi ricordo di quella volta che salì sul tetto di quella casetta che i frati si erano costruiti per avere un riparo, e lo distrusse urlando che sorella povertà non lo voleva. E poi alla sera li ammaestrò dolcemente sull’amore fraterno.”

Riprendemmo a camminare.

A qualche passo da noi un ragazzo era fermo sulla riva. Ci vide arrivare e si volse a guardarci.

Lo conoscevo di vista: quando ero andato via per seguire Francesco era ancora quasi un bambino e giocava col mio fratellino a lanciarsi in acqua dai rami del grosso salice che c’è davanti alla chiesa.

“Pace a te, fratello!” disse Filippo.

Gervasio, ricordavo ora il suo nome, alzò una mano a salutare, ma non aprì bocca.

“Sei Gervasio, vero? Io sono Dulbino, il fratello di Giovanni, con cui giocavi da piccolo.”

“Ah, Giovanni, certo! E tu sei Dulbino , sì, sì… mi ricordo. Dov’è ora tuo fratello? Non lo vedo da quando partì con tuo padre e tua madre.”

“Non lo so, Gervasio. Nessuno ha saputo dirmi niente. Quando sono tornato qui la volta scorsa non c’erano già più; mi hanno detto che sono andati oltre le montagne, di la’” risposi, facendo segno a nord.

“Tua madre ha sofferto molto quando sei andato via, Dulbino, anche se non ti ha mai detto niente. Vi chiamano “i pazzi”, sapete, perché andate dietro a quello che sembra un pazzo.”

Io e frate Filippo ci guardammo quasi con imbarazzo, anche se di imbarazzante non c’era niente. Ma vallo a spiegare a chi non sa come viviamo e cosa facciamo.

“Eh… “ dissi, “le mamme sono apprensive, hanno paura di tutto e vorrebbero sempre che il proprio figlio crescesse sotto le loro gonne. Ma io ho trovato la mia vita insieme a loro: gioia nel Signore, semplicità di vita, fraternità.”

“… e camminare scalzi e morire di fame e di freddo” rispose Gervasio indicando il nostro vestire.

“Non si può avere sempre tutto ciò che si vuole, perché non tutto è veramente buono per noi e la nostra anima!”

Udimmo queste parole venire da dietro di noi e ci voltammo.

Francesco stava arrivando di corsa da mezzo al boschetto.

“Pace, fratelli!” esclamò ansando e risistemando il saio che era andato un po’ per i fatti suoi.

“Francesco!” disse fra Filippo. “Dov’eri?”

“Avevo una missione da compiere stanotte, di quelle che richiedono che ci sia solo io.”

“Lui è Francesco” dissi rivolto a Gervasio. “È il nostro fratello maggiore, il pazzo per il quale sono diventato anch’io pazzo” ammiccai.

“Cos’è questa cosa del pazzo?” chiese Francesco divertito.

“È che non mi sembra normale quello che fate, e non solo a me.”

“Ed è solo per questo che la gente pensa che siamo pazzi?” ribatté Francesco.

“Beh, non mi sembra normale col freddo e il gelo andare in giro così poco vestiti, qualcuno anche scalzo, dormire all’aperto senza avere una casa.”

“Tu che mestiere fai” chiese Francesco a Gervasio.

“Intreccio cestini in vimini, riparo qualcosa che si rompe, cose così insomma.”

“E per fare questo hai bisogno di un posto dove stare, dove la gente ti può venire a cercare. Hai bisogno di una casa dove ripararti e dormire, vero?”

“Certamente!”

“Noi, invece, per fare il nostro ‘mestiere’ abbiamo bisogno di… non aver bisogno di niente! Anzi, ogni cosa che possediamo ci distrae da quello che abbiamo scelto di fare. Il nostro mestiere è andare dalla gente e dire loro: ‘sei figlio di Dio! Rialzati e cammina a testa alta, rendi onore al Padre tuo che è nei Cieli!’”

“E come fate per le cose che vi servono: mangiare, vestirvi, dormire?”

“Abbiamo tanti servitori che neanche te li immagini!”

Io e frate Filippo a questo punto guardammo Francesco con aria interrogativa. Lui allora si girò verso di noi e disse:

“Non vedete anche voi ogni volta uno stuolo di angeli mandati da nostro Padre ad accompagnare chi ci porta un tozzo di pane, un po’ di stoffa per farci un saio, una coperta per qualche fratello ammalato e infreddolito?”

Poi si volse nuovamente verso Gervasio e abbracciando con le mani il cielo e la terra disse:

“Vedi fratello, abbiamo tanti di quei servitori che nemmeno il papa o l’imperatore di Germania!”

“Ma come… “ provai a dire, ma non trovai altre parole, non capivo.

“Tu, Dulbino, fratello mio carissimo e amato, devi smettere di guardare con gli occhi del corpo e imparare a usare quelli dell’anima!”

Gervasio sembrò colpito da una frustata e si irrigidì, aggrottando le ciglia. Poi chiese rivolto a Francesco:

“E cosa vuol dire questo?”

Francesco gli si avvicinò e mise una mano sulla sua spalla; quindi prese a camminare con lui sulla riva.

E cominciò a dire:

“Vieni, fratello Gervasio, ti racconto una storia… .”

Poi la voce divenne un sussurro e tre paia di orme calcarono i ciottoli, allontanandosi.

L'oste Juan
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N.B.: Luvino è il nome di Luino al tempo di Dulbino e Francesco, intorno al 1200. Questo racconto fa parte della saga di fra Dulbino, fraticello (inventato) del primo gruppo di compagni di Francesco d'Assisi. Gli altri racconti li trovate qui, nel vecchio blog.