martedì 16 aprile 2024

La bellezza secondo me


Una bellezza calabrese d'altri tempi: mia madre
Pomeriggio al supermercato (sembra quasi una canzone di Lucio Battisti:
"In un grande magazzino una volta al mese / Spingere un carrello pieno sotto braccio a te"...).
Mi guardo in giro alla ricerca di niente di particolare e vedo entrare, una dopo l'altra, 3-4 donne sui quarant'anni.
Mi colpisce il loro modo di camminare, di andare tra gli scaffali: chi rilassata, chi alla ricerca di quel solo prodotto da prendere, pagare e scappare a casa, chi con l'occhio sulla lista.
Vestiti diversi, colori diversi.
Ma una cosa in comune: la bellezza.
La bellezza delle donne calabresi.
Una bellezza fatta non di maquillage, di trucchi, di ritocchini.
Ma una bellezza fatta di sole, di pelle dorata, di una vita realizzata con cose semplici.
Non senza problemi, non senza patemi d'animo, preoccupazioni per i figli, per il lavoro che spesso non c'è o è precario.
Ma la bellezza di chi affronta tutto sapendo che, comunque, bisogna andare avanti; perché nessuno ha la bacchetta magica ma il sole, il mare, l'aria che sa di buono e di pulito sono dalla tua parte.
Sapendo che nessuno in questa terra è mai veramente morto di fame perché la Calabria è tutta una sola grande famiglia.
E la bellezza, quella vera, è fatta di serenità d'animo, di coraggio, di consapevolezza.

lunedì 15 aprile 2024

C'è vita nella vita

Sono emigrato in Calabria.
Si emigra sempre per andare a stare meglio, e quando sei in pensione il posto dove si sta meglio è la Calabria; in assoluto.
Sono di ritorno da una regione del Nord che mi ha dato lavoro e una vita dignitosa per venticinque anni. Ma ero stanco di inquinamento, di saluti affettati (e affrettati) e freddi tra vicini di casa, di traffico e di cibo di plastica.
Perciò ora eccomi qua a godermi il sole, il mare, la montagna, i pomodori che sanno di pomodori e le cipolle rosse di Tropea.
A voi posso dirlo: sono…
Ma c’è rumore, un rumore strano, qualcuno che mugghia. Ma forse non è qualcuno, è qualcosa.
Sì, lo riconosco. Riconosco il mare. Il mare, l’ho detto, è uno dei motivi per cui son venuto in Calabria. Il mare d’estate. Il mare d’inverno.
Preferisco quello d’inverno, ché s’avvicina di più all’idea primordiale che ho del mare: un modo caotico e potente di esprimere la creazione.
La creazione, perché io non credo alla storiella delle particelle che dopo il big bang si sono incontrate per caso e si sono presentate l’un l’altra:
“Piacere sono l’azoto;
oh! Piacere, sono lo stronzio.
Che facciamo qui in questo marasma informe?
Mah… non so.
Proviamo ad accoppiarci e vediamo cosa succede?”
Nella mia testa l’immagine più vicina alla realtà sarebbe quella di qualcuno (un Dio? Magari con la proboscide al posto del naso? Non importa come ve lo rappresentate. Ci volete mettere la barba bianca? O dargli solo un anima senza un corpo per la carta di identità? Fate voi…).
Un Dio, dicevo, che ha una bella idea in mente e la realizza.
Possiamo discutere su come stiano andando le cose in questo tempo, ma l’idea era buona, ammettiamolo: il lupo che gironzola per i campi con l’agnello; il bambino che giocherella col serpente…
Cose così, insomma. Una creazione non mitica, ma realistica, ordinata, unica e unitaria; armonica.
Poi ognuno può avere le sue idee in proposito, ci mancherebbe.
Ecco, la mia è questa.
Se vi va, la prossima volta vi racconto qualche altra cosa.

lunedì 5 giugno 2023

IL POSTER (racconto)

Smisi per un attimo di scompormi e mi ritrovai davanti all’orologio che mi ricordava che il tempo concessomi era sul punto di terminare.

Ero solito fare almeno due volte alla settimana la mia scomposizione. Molti anni prima (tanti che ormai la cosa era entrata a scuola nel programma di storia) qualcuno aveva scoperto che l’uomo era tecnicamente assimilabile ad una macchina: così come ogni tot chilometri è bene portare l’auto dal meccanico, farla smontare pezzo per pezzo, ripulirne le parti e poi rimetterla a posto, nello stesso modo era possibile farlo con la mente umana. Pian piano furono approntati speciali luoghi dove era possibile fare quest’operazione: stanze completamente vuote tranne che per una sedia ergonomica e uno specchio; come quella in cui mi trovavo in questo momento. Era possibile accedere a queste stanze dopo un corso di alcuni mesi in cui veniva spiegato come scomporre la mente in vari scomparti: lavoro, amicizia, affetti, famiglia, studio, memoria, sentimenti vari, ecc.. Terminata questa prima parte, era possibile ripulire le varie parti, togliendo le incrostazioni che dall’ultima volta si erano formate e che influivano negativamente sulla vita presente. Se per esempio avevi litigato col capoufficio, o tua moglie ti aveva risposto un po’ bruscamente senza che tu te l’aspettassi, allora si evidenziavano le sezioni lavoro o affetti e si rimuovevano da esse questi episodi, col risultato che queste tornavano immacolate e tutta la vita diventava più scorrevole, senza intoppi e intralci di alcun genere.

Era un po’ come andare dal vecchio psicanalista, solo che costava molto meno e potevi farlo da solo, come e quando volevi.

E tutto ciò faceva bene ai singoli come alla società. Infatti molti giudici nei tribunali avevano preso a imporre a persone accusate di piccoli reati di sottoporsi a questo espediente, come cura oltre che come pena.

Devo dire che anche a me era sembrata una buona idea: c’era meno gente in carcere, a vivere a spese dello stato, e si dava loro la possibilità di rimettersi subito in carreggiata.

Ma non devo divagare, me lo sono imposto proprio prima di iniziare la seduta di scomposizione di oggi, per ragioni di tempo, perché non è possibile fare una pulizia completa ogni volta. Se per ogni sezione, infatti, si dovesse togliere via ogni più piccola imperfezione ci vorrebbe molto tempo: calcolate più o meno un quarto d’ora per ogni blocco, moltiplicatelo per tutte le sezioni, almeno quelle principali, e vi renderete conto di quanto fa.

Perciò ognuno ha il suo metodo, come per le pulizie di casa: c’è chi pulisce ogni cosa sufficientemente dando una parvenza generale di pulizia e insistendo ogni tanto su qualcosa di più preciso; e c’è chi invece preferisce concentrarsi su una sezione particolare alla volta e lucidarla per bene, tralasciando le altre.

Ora, all’inizio, quando la procedura di pulizia si poteva effettuare solo nei centri specializzati, erano pochi quelli che la praticavano e il tempo a disposizione per ciascuno era praticamente illimitato: in un giorno si presentavano due - tre persone nei centri convenzionati. Poco alla volta però i clienti si erano moltiplicati e gli organizzatori erano stati costretti a stabilire un tempo preciso per ogni seduta personale. Alla fine fu stabilita un’ora a testa.

 

Terminai il tempo assegnatomi e controllai allo speciale specchio se ero intero. Il sistema era quello solito: ti fotografi la psiche prima e la rivedi dopo l’operazione di pulizia.

Mi sembrava che tutto fosse a posto.

Uscii per strada e aspirai a pieni polmoni l’aria che quel giorno era densa; evidentemente, pensai, oggi è il turno di chi è stato punito per lungo tempo. Pensai che quel metodo di immettere nell’aria sostanze per alleviare determinate pene, emozioni troppo forti o infelicità varie fosse abbastanza valido.

Ormai tutto poteva essere controllato e indirizzato verso il Bene. C’era stato un tempo in cui di fronte a problemi sociali e momenti di tensione collettiva, il Potere utilizzava metodi ancora infantili. Di fronte a quelle che venivano chiamate ‘emergenze sociali’, o quando la coscienza collettiva si avvicinava al centro vero di qualche problema (col rischio di destabilizzare il Potere stesso e chi l’aveva in mano smascherandone i piani) i Governi mettevano in piedi una ‘controfferta’ per spostare l’attenzione dell’opinione pubblica. Bastava un programma televisivo messo al punto giusto o qualche fatto clamoroso (un omicidio ‘politico’, uno scandalo bello grosso e rumoroso, di quelli che però poi finiscono tutti in una bolla di sapone) perché la gente si dimenticasse del resto e per qualche mese se ne stesse buona buona. Era il vecchio panem et circenses dei romani, niente di nuovo quindi.

In realtà, questi metodi non erano eccessivamente efficaci perché c’era sempre qualcuno in grado di mettere in guardia la società, quelli che venivano definiti la ‘coscienza critica’, capaci nonostante tutto di pensare in modo autonomo dalla massa. Si trattava comunque di soggetti facilmente emarginabili e, in un modo o nell’altro, per amore o per forza, eliminabili fisicamente o socialmente. Ma tutto ciò costava fatica, denaro e bisognava tirare dentro troppe persone…

 Ora questo nuovo metodo, invece, permetteva di controllare ogni cosa in maniera pulita e legale. Poiché tutti abbiamo bisogno di respirare per vivere, allora quale soluzione migliore che immettere nell’aria sostanze aventi lo stesso effetto di programmi di intrattenimento e scandali  tenendo buona la gente? Tutto legale e meritorio perché fatto ‘per il bene della Nazione e del Mondo’.

Così un gruppo mondiale di scienziati dell’ONU (L’Organizzazione delle Nazioni Unificate, erede diretta della vecchia ONU dopo la Pianificazione voluta dai G8 contro quelli che essi chiamavano terroristi) aveva selezionato una serie di sostanze buone ad ogni evenienza e il gioco era fatto: come all’inizio dell’estate vengono immessi nell’aria insetticidi contro moscerini e zanzare, allo stesso modo quando le acque sociali sembravano muoversi un po’ troppo, un’innaffiata collettiva era ciò che serviva.

Pian piano l’operazione era stata accettata a livello mondiale, così il Potere si era sentito in dovere di diffondere quotidianamente nell’aria una certa quantità di sostanze calmanti: era un po’ come quando si prendeva la tisana della sera per dormire. E se, per qualsiasi motivo qualcuno sfuggiva al trattamento comunitario, c’era sempre la scomposizione legale obbligatoria.

C’era poi ancora un altro metodo, precedente a quello dell’immissione nell’aria di sostanze calmanti e terapeutiche, che consisteva nell’iniezione personalizzata di un prodotto dopo la pulizia interiore fatta con la scomposizione, e che dava la possibilità di vedere le cose con più oggettività e serenità. La nuova ONU aveva assicurato che non si trattava di una droga perché non dava assuefazione e non provocava danni all’organismo.

Dapprincipio io era stato tra quelli, pochi per la verità, che credevano che questo vecchio metodo dell’iniezione singola fosse ancora buono; ma mi rendevo conto della dispendiosità e della pericolosità del fatto: qualcuno poteva sfuggire e allora non sarebbe servito a niente tutto il resto.

Io continuavo ancora a praticare questo metodo e il suo ricordo me ne fece venire la voglia, provai un bisogno assoluto di fare l’iniezione e mi precipitai a casa.

Quando sentii il liquido scorrermi nelle vene stetti subito meglio. L’iniezione mi stava facendo indubbiamente bene, anche se mi ricordai che l’ultima volta, dopo, avevo avuto strani mal di capo. Non volli pensarci; ora ero seduto sulla mia poltrona preferita, quella di pelle amaranto, e stavo guardando il poster tridimensionale appeso davanti a me.

Era un poster molto bello, grande quasi quanto mezza parete, che avevo trovato quando avevo preso in fitto la casa, e che avevo lasciato perché aveva un che di interessante e attraente. In verità avevo lasciato tutto o quasi di quello che c’era in casa, anche perché i diversi inquilini che si erano susseguiti negli ultimi anni avevano aggiunto ognuno un po’ del proprio, rendendo il tutto confortevole e accogliente. Anche la spesa dell’affitto era stata ottimale e mi era sembrato strano che con un prezzo così basso la casa fosse rimasta vuota per così tanto tempo. C’era anche un’altra cosa strana per la verità, ma si trattava di voci di quartiere: si diceva che tutti gli ultimi inquilini non si erano fatti più vedere, sembravano spariti nel nulla, da un giorno all’altro, con grande disappunto del padrone di casa.

Avevo notato quel cartello ‘Fittasi’ da diverso tempo, ma mi ero deciso a telefonare all’Agenzia solo un paio di mesi prima, quando avevo deciso di traslocare per essere più vicino al posto di lavoro. L’appartamento era ancora sul mercato, telefonai e lo fissai subito.

Il poster era stata la cosa che mi aveva colpito subito appena entrato in casa e non solo per la sua grandezza. Aveva infatti un non so che di indecifrabile e inquietante allo stesso tempo, pur riproducendo una delle scene più belle e rilassanti che possa capitare di vedere in una piacevole mattina d’estate in riva al mare. C’era una lunga spiaggia dorata che si perdeva quasi all’orizzonte, dove il cielo e il mare si miscelavano insieme. Sulla riva, alcuni cavalli correvano maestosi e imponenti mettendo in mostra tutti i loro muscoli. Dalla parte opposta, alcuni gabbiani erano padroni del cielo. Tutto era luminoso.

Niente di speciale nel complesso, ma bello.

Ed ora ero li, a fissarlo come mi capitava di fare quando volevo rilassarmi dopo aver fatto la scomposizione e l’iniezione.

Volli provare a far muovere l’immagine del poster: c’ero riuscito altre volte e ci sarei riuscito anche adesso perché l’effetto dell’iniezione era già a buon punto, e la scomposizione di poco prima mi aveva fatto bene: sentivo di avere le idee chiare e distinte e la mia anima e la mia mente erano libere da qualsiasi peso.

Le figure si mossero: i cavalli presero a correre lungo la spiaggia e i gabbiani a volare; sullo sfondo alcune palme muovevano i loro rami sotto l’effetto della brezza marina che si poteva quasi intuire, fresca e rilassante. A volte l’immagine seguiva il cavallo in corsa, a volte si fermava a fissare un punto in attesa dell’arrivo degli altri cavalli, tutto secondo i miei ordini cerebrali.

Qualcosa mi attrasse, qualcosa che non avevo mai notato prima nel poster. Fissai l’immagine sul punto e stetti in attesa: vedevo sul fondo qualcosa muoversi, ma era tutto troppo sfocato; provai a metterlo a punto ma non ci riuscii.

“Forse con un'altra iniezione ci riuscirò” pensai.

E la feci. Vedevo più chiaro ora, e notai sul fondo del mare un oggetto, o meglio una macchia nera, emergere, circondata da punti luminosi in aria. Non riuscii a capire cosa fosse e ciò m’innervosì non poco. Per quanto mi sforzassi non riuscivo a far decantare l’immagine nella mia mente per poterla scomporre e renderla chiara, intelligibile.

“Un’altra iniezione” pensai; presi l’ago e compii nuovamente l’operazione. Adesso distinguevo abbastanza bene la ‘cosa’ sullo sfondo: mi sembrava un essere completamente nero, con forme di uomo, ma con dimensioni cento volte maggiori, con enormi occhi rossi. Ancora non capivo bene cosa fossero quei punti luminosi, ma sembravano esseri sfavillanti che svolazzavano attorno all’essere più grande.

Volevo vedere ancora meglio, ero ormai in preda ad un’ansia che solo una comprensione perfetta della visione poteva calmare. Decisi per un’altra iniezione.

Una luce si accese sul tavolo. Era il pulsante che i Governativi fanno installare sempre lì dove qualcuno accetta di montare una postazione del genere: voleva dire che un’altra dose avrebbe potuto essermi fatale. Per un attimo ebbi una leggera esitazione, poi però il desiderio di vedere chiaro nel poster sopraffece la paura e feci l’iniezione.

Tornai alla mia poltrona amaranto.

Ora vedevo tutto chiaramente.

L’essere si avvicinò sin quasi a contatto con la superficie del poster; quindi, cosa che mi lasciò impietrito dalla paura, parlò.

Sentivo la sua voce distintamente, tuttavia non fuori da me, attraverso le mie orecchie. La sentivo invece da dentro, direttamente nel mio cervello. Una voce bassa e piena allo stesso tempo, pompata, come quella che creano in radio o in televisione quando qualcuno ha un tono da schifo.

“Bene” disse l’essere, “la tua curiosità è stata soddisfatta. Ora sai cosa c’è dietro quella strana macchia nera. Ma tu chi pensi che io sia?”

Non potevo ancora realizzare che quella voce fosse diretta veramente a me: io, essere reale, razionale, interrogato da qualcosa che stava in un poster? Era pur vero che nel corso per imparare la scomposizione mi avevano insegnato anche a credere assolutamente a ciò che era; e quella voce, quella figura erano lì, in quel momento, davanti a me.

Come se avesse letto nei miei pensieri, la voce continuò:

“Si, sono proprio io, l’essere nero, il ‘qualcosa’ come dici tu. Mi hai chiamato e io sono venuto. Ed ora ti rifaccio la domanda: tu chi pensi che io sia?”

Trovai un po’ di coraggio:

“Come faccio a saperlo? Non sono stato io a chiamarti! Tu menti!”

“Voi uomini siete tutti gli stessi! Prima fate le cose e poi dite: ma io non volevo, io non c’entro con questo! Cosa pensate che siano quelle ‘cose’ che mettete da parte quando nascono e poi incenerite senza che nessuno le veda? O cosa pensate che siano quelle creature mostruose che piano piano stanno riempiendo le foreste e i deserti, e che quanto prima arriveranno nelle vostre città? Non sono forse io già qui davanti a te? Pensi che ci voglia molto per me ad uscire da questo poster, mettermi a passeggiare per casa, preparami un caffè e poi uscire da quella porta e andare incontro ai tuoi simili per strada? Non lo facciamo perché non è ancora giunto il momento. Bisogna che tutti siano al corrente e capiscano quando arriverà il tempo. I vostri Potenti ci stanno dando una grande mano, col loro silenzio…”

“Loro sanno?”

Mi tornarono in mente tutte le campagne dei cosiddetti ‘complottisti’, i loro proclami.

E questa rivelazione mi squassò da dentro; ebbi un lampo: se era così era la fine.

“Non tutti, per la verità, ma molti sono ormai dei nostri. E gli altri si adeguano per non fare la figura dei retrogradi. Perché tanto ormai questa è un’evoluzione irreversibile. Voi pensate che creare un mondo a vostra immagine e somiglianza, dove tutto è sotto controllo, sia il massimo della scienza. È così bello poter modificare le cose a vostro piacimento: mia figlia nascerà con gli occhi azzurri e le caviglie da indossatrice” squittì con voce da donna ”l’ho programmata così, siamo stati dal genetista e l’abbiamo scelta, c’era un catalogo vastissimo! Fate, fate pure!” continuò col suo tono, che andava ingrossandosi sempre più, in un crescendo da Bolero di Ravel.

“Anche tu hai voluto sfidare la sorte pur di sapere qualcosa in più. Hai sentito il segnale di pericolo, eppure sei andato avanti. Così imparerai che ci sono tanti tipi di morte e che si può morire pur continuando ad andare in ufficio, fare figli e andare in vacanza.”

Io continuavo a restare muto, con le mani aggrappate alla mia poltrona e il cervello che voleva essere da un’altra parte. Ma non potevo; l’essere non cessava di fluttuare dall’orizzonte del poster, sempre pronto a uscire, incombente.

“Hai voluto sapere, ed ora sai. Modifica un pezzetto di qui, cambia quell’altra fetta di là” poi ancora quella voce da donna “è cosa veramente da poco, e poi è più carino il pomodoro con le sfumature celestine, anche l’occhio vuole la sua parte! La cucina veramente creativa è questa!

Ci fu una pausa, poi:

“Voi pensate che niente di importante sia stato trasformato, ma non vi rendete conto che quello che avete modificato è proprio quello che non si vede ma che da senso a tutto. Avete voluto cambiare il senso alle cose: per voi un pomodoro non deve essere più ‘buono da mangiare’ ma ‘bello da vedersi’. Un bambino non è importante come essere umano, ma deve piacere alla mamma e al papà che lo potranno esibire con orgoglio alla fiera della società.”

Ci fu silenzio. Non so quanto durò, ma mi sentivo come beccheggiare in un mare d’aria; ero incapace a tornare con i piedi per terra, o forse non volevo farlo, perché capivo che la realtà, non quella di quest’attimo in questa stanza, ma quella che scorreva da chissà quanto tempo là fuori, era lanciata inevitabilmente a trasformarsi come aveva detto l’essere del poster.

La voce parlò ancora, non più arrabbiata e cavernosa, ma pacata, come di chi ha raggiunto il suo scopo e ora chiede il conto:

“Te lo chiedo di nuovo, adesso: tu chi pensi che io sia?”

Non cercai neanche nella mia mente una risposta. Sapevo di aver capito tutto, ma sapevo anche di non volerne avere cognizione. Rifiutavo semplicemente di accettare la realtà, quella del mondo la fuori.

“Capisco che non sai cosa dire” era la voce. “Allora te la do io la risposta: io sono te. Non te adesso, ma te quando la tua voglia di andare oltre ti avrà fatto dimenticare ogni altra cosa e ti avrà preso totalmente. E verrà il giorno in cui tutti quelli come me (e te!) usciranno allo scoperto e sarà un gioco da ragazzi organizzare tante belle gite per convincere la gente che è meglio aderire al Glorioso Nuovo Mondo che noi guideremo alla Potenza e alla Vittoria su coloro che penseranno di resistere. Ti voglio dare una chance, una possibilità: accetta di farti ufficialmente anche tu paladino della nostra causa. Passa anche tu tra le file di coloro che governeranno il mondo.”

Trovai le parole:

“Altrimenti?”

“Altrimenti …” e la frase rimasta a metà diceva tutto, tranne il modo.

Non ebbi quasi esitazioni.

Mi lasciai prendere pacificamente senza protestare, e fui trasportato nel poster e tramutato in uno di quei piccoli esseri volanti luminosi.

In un attimo di lucidità, prima della metamorfosi completa, capii perché nessuno dei precedenti abitanti della casa era stato mai ritrovato.

 

 

sabato 15 aprile 2023

Il grosso guaio di Melany

... mi avventuro per un viottolo polveroso.
Cos’è che aveva detto quella voce concitata al telefono?

“Sono in un grosso guaio! La prego, mi aiuti!”

E io stavo andando a vedere che faccia avesse quella voce al telefono.

A naso, anzi ad orecchio, dovrebbe avere sulla ventina, magra, mediamente scolarizzata.

Sono un esperto di voci al telefono, visto che il mio lavoro di investigatore privato inizia sempre con la telefonata di qualcuno che ha un problema.

Seguo il lungo mare fino a quando il navigatore non mi dice di svoltare a destra e aggiunge: “Il punto di arrivo è alla tua destra”.

Alla mia destra c’è un groviglio di lecci; lascio l’auto e mi avventuro per un viottolo polveroso.

Cinquanta metri e compare all’improvviso una casa rossa con una veranda in legno che protegge la porta d’ingresso.

Sulla veranda c’è un’altalena che sta dondolando e solo quando arrivo vicino mi accorgo che il movimento è dovuto alla presenza di una ragazza: è esattamente come l’avevo immaginata.

Sulla ventina (anche qualche anno in più), magra e con un’ampia gonna lunga stile figlia dei fiori. I capelli sono neri e ondulati e coprono le spalle. In questo momento cercano di sollevarsi col movimento dell’altalena, come la gonna.

Diciamo che nel complesso non mi da l’impressione di una persona che si trovi in un grosso guaio e abbia bisogno di aiuto.

“Buongiorno! È Melany?”

“Oh, sì! E lei è Adam?” mi dice fermando il movimento dell’altalena.

“Certo, sono io.”

Mi avvicino e le porgo la mano.

Melany la ignora, si alza e si getta letteralmente su un divanetto in midollino messo contro il muro. Temo per un attimo che crolli sotto il peso, ma regge bene.

“Prego, sieda lì” e mi indica una poltroncina, sempre in midollino, di fronte.

Mi guardo un po’ in giro, più per istinto professionale che per curiosità, e vedo che la casa è immersa completamente nel boschetto di lecci: se la ragazza teme di ricevere visite poco gradite specie di notte, sarà dura intervenire.

“Le posso offrire qualcosa?” mi chiede.

“No, grazie. Preferisco venire subito al dunque.”

“Sì, certamente. Ma è sicuro che non vuole niente? Una birra? Una limonata fresca? Un caffè?”

“No, no, grazie. Ora mi dica.”

“Certo” sospira.

Pare cercare nell’aria dietro di me qualcosa che la ispiri, ma non apre bocca.

Forse non riesce a dare un nome alla sua paura, penso. Eppure mi sembra abbastanza tranquilla, a suo agio…

“Mi ha chiamato un’ora fa dicendo che era in un grosso guaio, e sono arrivato nel minor tempo possibile… “ dico cercando di richiamarla alla realtà.

“Sì, certo, ha ragione. Vede io qui vivo sola e, specie di notte è pieno di rumori… “

“Immagino” dico quando capisco che anche questa volta non spiccicherà più altra parola. “Però è normale con tutti questi alberi attaccati alla casa. D’altra parte da quanto tempo è che vive qui?”

“Tre anni, più o meno… “

“E sempre da sola?”

“Sostanzialmente sì… “

“In che senso: sostanzialmente?”

“Nel senso che… sì, vivo sola.”

“Quindi sarà abituata al silenzio e ai rumori…”

“Ebbè, sì…”

“E allora questa volta cosa c’è di diverso, cosa le fa credere di essere in un grosso guaio?”

“Ma non potremmo darci del tu” mi dice rianimandosi un po’.

“Va bene, diamoci del tu” rispondo e aggiungo mentalmente: ma sbrigati a dirmi qualcosa!

“Ecco, così mi sento meglio!”

“Anche io” le mento “ora dimmi.”

“Sì, certo. Non so se hai sentito parlare di quel ragazzo che è stato aggredito una ventina di giorni fa nel paese qui vicino…”

“Sì, certamente, ma hanno preso il colpevole; era una sua ex.”

“Conoscevo tutti e due, siamo andati a scuola insieme, al liceo.” Si sistema meglio sul divanetto, prende un cuscino di tessuto a quadri grandi rossi e blu alla sua destra e se lo mette in grembo.

“E quindi?”, chiedo

“Quindi, cosa?” ribatte Melany.

“Quindi cosa ha a che fare con il grosso guaio in cui ti sei cacciata?”

Comincio a perdere la pazienza. Sembra un quiz a premi: se scopri la soluzione vinci l’orsacchiotto.

“No, è che pensavo che potrebbe succedere la stessa cosa a me…”

“Quel caso ormai è chiuso. E comunque potresti andare a stare da qualcuno per qualche giorno. Oppure invitare qualcuno a stare con te per un po’.”

In lontananza sento una campana battere le ore: dovrebbe essere almeno un’ora che sono lì.

“Mah… non conosco quasi nessuno qui… Forse potrei chiamare…”

Poi sembra rianimarsi:

“Non potresti venire tu a farmi compagnia?”

“No di certo! Questo non fa parte dei miei obblighi. Potrei venire a dare un’occhiata ogni tanto, se vuoi. E poi comunque mi hai detto di essere in un grosso guaio, non di avere solamente paura…”

“Beh, volevo dire che… è un guaio trovarmi qui da sola e questo mi fa avere pura.”

Nessuno dei due fiata per un po’. Poi prendo l’iniziativa:

“Allora, cosa vuoi che facciamo? Devo capire come muovermi, come organizzarmi.”

Melany guarda l’orologio.

“Sì, certamente… sei certo di non volere una birra fresca?”

“Non voglio una birra fresca!”

Ormai sto perdendo la bussola: non capisco a quale gioco sta giocando quella ragazza.

“E vabbè, non ti arrabbiare! In fondo stiamo facendo due chiacchiere!” risponde.

“Non stiamo facendo due chiacchiere: tu mi hai chiamato dicendo che avevi bisogno del mio aiuto e io sono venuto.”

Vedendo che la ragazza non fiata decido di risolvere una volta per tutte.

“Allora, mi vuoi dire qual è il grosso guaio e cosa posso fare o no?”

Melany fa la faccia da cerbiatta spaventata. Poi riguarda l’orologio e sembra  sollevata.

“Beh, la verità è che mi annoiavo e non sapevo come passare il pomeriggio, almeno fino alle 19, quando comincia il remake di ‘Pantanal’. Hai presente la telenovela con Ingra Lyberato e Claudio Marzio? Ora sono le 18,45, quindi ci siamo quasi…”

“Sono comunque 100 € più IVA, per 2 ore di lavoro. A chi intesto la parcella?” taglio corto.

E termino la storia.

 

(opera coperta da diritti d'autore)

mercoledì 12 aprile 2023

La verità di Ronald

(Racconto di circa duemila parole)
 
Beh, Ronny deve essere da qualche parte...
So che non è un modo originalissimo di iniziare un racconto, ma è andata così, lo giuro…
Questa storia me l’ha raccontata Ronald.
Immagino che voi non lo conosciate, a meno che non bazzichiate spesso tra la Euclide Street e Colorado Ave. Se per caso lo fate, vi sarà capitato di vedere un omino con un panama che è stato bianco ma che ora, a vista, è di un cenere pallido con macchie multicolori sparse.
Un po’ per lo smog che appesta quella zona, un po’ per il vezzo di Ronald di inchinarsi facendo la mossa di togliersi il cappello ogni volta che vede passare qualche bella figliola o qualche signora ben tenuta. E in più di 50 anni di stazionamento sui marciapiedi di Santa Monica di belle figliole e signore ben tenute ne ha viste passare una moltitudine!
Comunque, qualche giorno fa mi trovavo all’altezza dell’11th, dove c’è il concessionario Audi (grandi macchine, quelle che vengono dall’altra parte dell’oceano!), e lo vedo seduto su una panchina a fumare la sua pipa di schiuma bianca.
Ronny (perché è così che tutti lo chiamano) è orgoglioso della sua pipa bianca regalo, dice lui, di una gran dama di Long Beach. Racconta che la gran donna gliela regalò per ringraziarlo di quella volta in cui, lui era ancora giovane e scattante, riuscì a bloccare il ladruncolo che l’aveva scippata della borsa. Così la gran signora, sempre a suo dire, gli chiese come avrebbe potuto sdebitarsi per quel favore e lui, che non aveva mai fumato in vita sua, chiese lì per lì la pipa di schiuma che aveva visto quella stessa mattina nella vetrina del negozio all’angolo.
Sono passati un mucchio di anni e la pipa è ancora in mano a Ronny. Non è più candida come il primo giorno (come il panama, del resto), ma ancora perfettamente in servizio.
Sì, bisogna dire che Ronny e la pipa formano una bella coppia. Si potrebbe quasi dire, parlando di Ronny, che è ‘quello della pipa bianca’.
E allora, vedo Ronny sulla panchina e poiché la mia pausa pranzo dura quanto voglio io (giacché fare il rappresentante di barattoli di marmellata ha anche questo vantaggio) decido di fermarmi un po’ con lui.
“Ronny!” gli urlo, avvicinandomi alla panchina.
“Mitch!” mi risponde Ronny, facendomi un po’ di spazio accanto a lui.
Meno male che ho imparato a non fare troppo lo schizzinoso, vivendo soprattutto per strada a causa del mio lavoro, altrimenti sedere dove fino a un attimo prima c’erano resti di burritos e hamburger non sarebbe stato igienico per i miei calzoni color sabbia. Così ho poggiato il Santa Monica Mirror, appena acquistato alla macchinetta L.A. Press, sulla panchina e mi sono seduto. Ronny mi omaggia di uno dei suoi sorrisi più sinceri e mi chiede come va.
“Non c’è male” rispondo “e a te?”.
“C’è il sole, la pipa è piena e ho appena fatto un lauto pranzo. Che voglio di più!”
Un auto sgomma all’incrocio e Ronny fa la faccia contrariata e comincia:
“Sempre di corsa, la gente… Che poi, dove va? Le cose vanno come devono andare: sei in ritardo? Ci sarà un motivo. Tu non lo sai, ma un motivo c’è! E deve essere anche un buon motivo, perché la tua vita cambierà…”
“Sei sul filosofico, stamattina.”
“Maaah! Oggi… ecco, guarda quella dell’altro marciapiede” e mi indica una donna sulla 50ina con una paio di zatteroni alti 20 centimetri e una parrucca rosso fuoco, “ti pare normale quella? No! Se poi cade…”
La donna barcolla per un attimo, cerca di afferrarsi all’uomo che gli passa accanto e cade.
“Portassi jella?!” dico a Ronny.
“Ma quale jella! È normale che a quell’età non ti puoi reggere in piedi su scarpe come quelle! Il mondo è sbagliato, caro Mitch! È tutto sottosopra! Ti faccio un esempio: conosci la storia di Learco Orsini?"
Ed è a questo punto che mi racconta la storia che volevo condividere con voi.
Se avete voglia e qualche minuto di tempo, ve la racconto.
Learco Orsini era figlio di Werter Orsini e di Janet Blakey, nato e cresciuto a Dallas, come i genitori. Werter, anche lui cresciuto a Dallas, era figlio di Learco Orsini - il senior, arrivato da Novafeltria, in Italia, nel primo decennio del secolo scorso. Learco senior aveva saputo della bomba atomica quando ormai si considerava americano a tutti gli effetti, perché l’America l’aveva accolto, gli aveva dato un lavoro, fatto dimenticare -forse- le sue colline romagnole. A Quinlan, pochi kilometri dal lago di Tawakoni e da Waco Bay, aveva conosciuto Wilma Sergenti, figlia di immigrati come lui, emiliana (a Learco non gli interessava che non fosse romagnola: con quegli occhi poteva essere pure prussiana!) e dell’età giusta per metter su una bella famiglia all’italiana. Nonostante i buoni propositi di entrambi, dal matrimonio era venuto solo Werter, per motivi che nessuno seppe mai veramente. Ci furono molte dicerie e indiscrezioni, specie sulle prestazioni di Werter, tanto che dopo qualche anno la famiglia si trasferì a Dallas, lontano da tutto e da tutti.
Il lavoro di Werter ingranò bene e Learco junior poté crescere agiatamente, frequentare buone scuole (anche se non le migliori) e avere un giro di amici tranquilli e sempre con qualche dollaro in tasca come lui.
“Questa è una bella storia. Dove sta il mondo sottosopra?” gli chiedo.
“E infatti è proprio qui che comincia a sgretolarsi tutto” risponde Ronny.
Il crollo iniziò quando Werter e Wilma morirono a distanza di poco tempo, quando Learco aveva all’incirca 40 anni, continuò a raccontare Ronny.
Werter aveva un bel negozio di statuine di gesso che produceva lui personalmente, facendole a mano nel retrobottega, dove aveva anche un bel forno per ceramica che affittava ad ore a chiunque ne avesse bisogno.
“Anche Learco… “ riprese Ronny.
L’interruppi perché era da un po’ che volevo chiederglielo:
“Ma lo chiamavano proprio così: Learco, il figlio? Cioè, voglio dire, non è un nome comune qui… “
Ronny fece un mezzo inchino ad una ragazza che, passando, gli aveva sorriso. Poi tornò a me.
“Certo che no! Tutti lo conoscevano come Lemmy, forse a causa di quel film con Lemmy Caution, l’investigatore privato. Learco, dicevo… “
“Lemmy, vuoi dire… Mi si appiccica il cervello solo a sentirlo quel nome… “
“Ok. Lemmy… “ E mi racconta di come Lemmy aveva dilapidato il patrimonio di famiglia in poco tempo.
In effetti modellare e muoversi tra le statuine di gesso e ceramica che il padre gli aveva lasciato in eredità come lavoro non aveva motivato Lemmy a fare salti di gioia.
“Vendere souvenir e bomboniere non faceva per lui, diciamo la verità. E poi per gli affari bisogna esserci portati. Lemmy, invece… bah, lasciamo stare! Pian piano nessuno cominciò a pagare l’uso del forno con la scusa che gli affari gli andavano male. La qualità delle sue statuine, poi, non era nemmeno lontanamente simile a quella del padre; così che Lemmy decise di non produrle più da sé ma di acquistarle da altri.”
Ma in tutti questi passaggi, le spese diventarono ben presto più degli incassi e il conto in banca cominciò a soffrire.
“Ora, non so se tu conosci Jeffrey Duck…” dice Ronny.
“Chi è che non conosce Jeffrey la Papera! Lo strozzino! Aspetta… mi vuoi dire che Lemmy si rivolse a lui?”
“Essì, andò proprio così. Cioè: non subito ma… fammela raccontare come la so!”
Ronny si stava accalorando: era meglio lasciarlo andare alla sua velocità.
“Bisognava pagare i fornitori, le bollette elettriche, mantenere la famiglia… e ti assicuro che Emily non aveva proprio la mano della donna di casa.”
“Ora chi è Emily?” lo blocco.
“Hai ragione, non te ne ho parlato. Emily era la moglie di Lemmy. O meglio: era la donna che sposò Lemmy quando ancora Lemmy era il figlio, e soprattutto l’erede, di Werter. Non so se mi sono spiegato…”
“Beh, sì, certo. Diciamo che Lemmy sposò Emily, ma che Emily sposò i soldi di Werter.”
“Vedo che sei sveglio, Mitch!”
“Messa così non ci vuole molto a capire.”
Ronny si lanciò in tutta una serie di storie e storielle su Emily, sul suo amore per le cose belle e costose, per le feste di un certo livello e per i ragazzoni muscolosi.
“Ma avrà avuto almeno 50 anni a quel tempo!” dissi, intuendo comunque l’andazzo della storia.
“Certo! Ma Emily sapeva come spargere miele vicino a lei. Peccato, però, che le api che le ronzavano attorno, non erano della migliore qualità. E una di queste fu proprio Jeffrey la Papera.”
“Quindi Lemmy si rivolse a lui per pagare i debiti?”
“No! Almeno: all’inizio no, fu Emily che si faceva mantenere gli sfizi e gli sfarzi da Jeffrey ma coi soldi di Lemmy.”
“No, aspetta, qui non ci arrivo…”
“Per questo ti dicevo che il mondo va alla rovescia!”
E inizia a raccontare di come Emily frequentasse locali notturni con Jeffrey facendo mettere tutto in conto al marito il quale, naturalmente, non ne sapeva niente.
“E come mai i locali mettevano in conto a uno che non avevano mai visto né sentito? Non ha senso?!”
“Perché c’era Jeffrey! E quando Emily diceva: segna a nome di Lemmy, e vicino aveva la Papera, era come una garanzia per loro.”
Finché un giorno i conti da saldare cominciarono ad essere pesanti e qualcuno volle sapere chi fosse e dove abitasse questo Lemmy Orsini.
“E qualcuno andò a trovarlo…” dico.
“Esatto. Avresti dovuto vedere la faccia di Lemmy quando si presentò in negozio un tipo con una giacca troppo gonfia sotto l’ascella e la mano troppo grossa per essere uno che maneggia statuine in gesso. Lui dapprincipio non ci capì niente di quello che l’uomo gli stava raccontando, e come poteva! ma poi gli si accese una lampadina e gli si spense la voglia di ridere.”
Così Lemmy chiese qualche giorno per capire cosa fare e andò a parlare con Emily. La quale non gli diede tante spiegazioni, ma disse semplicemente: “C’è da pagare, e se non hai i soldi è meglio che te li fai dare da qualcuno.” A questo punto la stessa Emily tirò fuori il nome di Jeffrey Duck e ci fu la quadratura del cerchio. La vendita del negozio bastò a malapena per pagare i conti dei locali di Emily, gli interessi della Papera e i debiti dell’ormai moribonda attività di statuine in gesso.
“E ora che fine ha fatto Lemmy?” chiedo.
Ronny si accende la pipa e fa un paio di tiri.
“Lemmy è morto, 3 o 4 anni fa. L’ho incontrato qualche volta fuori dai supermercati a raccattare qualcosa da mangiare e soprattutto da bere. Ho sempre detto che puoi mendicare e dormire sotto i ponti, ma bere: mai! Ti toglie l’onore e la rispettabilità!” e si volta a farmi uno dei suoi sguardi pieni di dignità.
“E Emily?”
“Emily ebbe ancora un paio di anni di buono, se capisci quello che voglio dire. Fece coppia fissa con la Papera ancora un po’ dopo il fatto di Lemmy; poi Jeffrey la passò ad un suo scagnozzo che stava facendo carriera e alla fine sparì dalla circolazione. Pare che anche lei tiri a vivere da qualche parte vicino a Santa Monica.”
Ronny si poggia soddisfatto alla spalliera della panchina. Io guardo l’orologio e penso sia l’ora di riprendere il mio giro coi barattoli della marmellata. Ho solo un ultimo dubbio.
“Scusa, Ronny, ma tu come fai a sapere tutte queste cose, fin nei minimi dettagli…”
“Non le so, le immagino. Ma se le cose sono andate così è una bella storia, vero?” e mi sorride soddisfatto! 
 
(opera protetta da diritti d'autore)

sabato 11 marzo 2023

La ricevuta

Mustang verde oliva del 1970 (ma non è quella di Jimmy...)
(Breve raccontino da duemila parole)

Percorse tutta Santa Monica Boulevard, dall’incrocio con Overland Ave fin quasi a Ocean Ave.
Con calma, dandosi il tempo di adocchiare i palazzi e le case a destra e a sinistra, come un turista svogliato. L’appuntamento era alle dieci e mezza e adesso l’orologio sul cruscotto diceva: 22:10.
La vecchia Buick del 1970 lo scarrozzava ancora bene, nonostante l’età e tutti i suoi rumorini.
Guidava quell’auto non perché servisse alla sua immagine di investigatore privato, ma perché con la cifra che il suo conto corrente gli aveva messo a disposizione era riuscito ad acquistare solo un modello così vecchio.
Però pian piano aveva imparato ad apprezzarla, compreso quel suo colore oliva slavato che all’inizio gli stava proprio sul gozzo. Anzi si poteva dire che quell’auto era diventata quasi un suo prolungamento, un pezzo imprescindibile della sua giornata. Insomma, di giorno viveva in simbiosi con quell’auto.
Cambiò stazione alla radio. Non gli interessavano quelle diavolerie moderne di CD o chiavette USB o, peggio ancora, i “sistemi integrati” che non sapeva manco bene cosa volesse dire.
Era un tipo semplice, lui.
Jeremy Pearl, che tutti chiamavano Jimmy, 46 anni portati così così, di media statura, capelli castani tagliati corti, niente barba ma la mosca sotto il labbro, e un abbonamento annuale alla palestra che non utilizzava ormai da sei mesi; e si vedeva.
Professione, dicevamo: investigatore privato.
Ogni volta che lo diceva, immaginava l’effetto che forse stava facendo sul suo interlocutore; e ne gongolava dentro.
Ma la realtà era diversa. Dopo quel primo caso che gli aveva dato un certo nome in città (ricordate la pietra di zaffiro rubata alla famosa diva e ritrovata da lui? sì, fu per un puro caso: si trovò al posto giusto al momento giusto, nulla di più…), dopo quel primo caso, dicevo, solo qualche pedinamento di fedifraghi; finché ne aveva avuto il fisico, qualche serata da accompagnatore / guardia del corpo per stelline in certa di visibilità; qualche dipendente infedele diventato ladruncolo e beccato sul colpo… cose così, insomma.
Poi aveva dovuto, gioco forza se voleva mangiare almeno due a volte al giorno, accettare di ritrovarsi sul libro paga di qualche personaggio di dubbia moralità.
Jimmy aveva sempre il cellulare acceso e disponibile per Mario LoVito, Alfreduccio Vona, Zelany Profumo. Sempre pronto a farsi dare l’indirizzo di qualcuno a cui risvegliare la memoria, da cui andare a prendere un pacchettino, ecc. ecc. .
Non cose grosse, ché per quelle c’era gente un po’ più ben messa di lui e con la pelle già abbondantemente bucata e ricucita, bucata e ricucita.
Lui andava bene per piccoli fastidi e anche per questo costava poco. Ma a lui bastava.
Era all’incrocio con la 4th Street, fermo al semaforo. Al verde girò a destra, altri 200 metri e sulla sinistra vide un Public Parking; mise la freccia ed entrò.
Rimase sul piano e cercò un posto vicino all’entrata: non si sa mai come vanno le cose, era sempre il suo motto.
Il nome di quella sera, quello a cui fare un discorsetto, era Tom, Tom Barroso.
Gli aveva dato appuntamento lì perché il Parking era a qualche isolato dal Chesnut Club, sulla Santa Monica, un night dove lasciava sempre un bel po’ di dollari quando ne aveva da spendere. Il prezzo del gin era alle stelle ormai e l’arredo femminile sempre più esigente.
Tom gli aveva detto di avere una Dodge Nitro MY gialla del 2010. Bella macchinina, aveva pensato Jimmy. E com’ è che con quel bolide non riusciva a saldare un debituccio a Zelany? si chiese.
Prese la piccola semiautomatica dal vano porta oggetti e la mise in tasca.
Scese dall’auto.
Erano le dieci e venti ma cominciò ugualmente a guardarsi attorno: un’auto gialla non rimaneva anonima e poteva darsi che Tom fosse già lì.
In vista non c’era nessuna auto di quel colore così vistoso, né piccola né grande.
Si poggiò al cofano della sua Mustang e incrociò braccia e gambe. Così facendo diede anche una controllatina alla pistola nella tasca della giacca senza dare sospetti.
Un’altro sguardo al mare di auto parcheggiate, e niente.
Ma da dietro una colonna quadrata a qualche metro da lui spuntò un uomo, più che altro un ragazzo, che avrebbe potuto essere un ispanico.
Avete presente un Antonio Banderas sui vent’anni? Ecco, proprio lui. Ma con una faccia cattiva, di uno che dalla vita non si aspetta passerelle e riflettori ma celle buie e coltelli volanti.
Si scambiarono un’occhiata e si agganciarono.
Tom, se era lui, gli si avvicinò con molta calma e si poggiò al cofano della macchina di fianco alla sua. Ognuno guardava davanti a sé.
- Tom?
- Jimmy?
- Facciamo in fretta o devo farti il ripasso? Sai, ho un po’ di premura…
Tom si allontanò dall’auto e fece per piazzarsi davanti a Jimmy. Ma Jimmy lo anticipò e si spostò a sua volta: non poteva dargli il vantaggio di stargli in piedi mentre lui era seduto e sbilanciato, nel caso l’avesse aggredito.
- Tranquillo, amico, non voglio farti del male. Anche perché con quella pistola che hai nella tasca della giacca faresti sicuramente più male tu a me. Hai qualche annetto ma da quel che vedo sei ancora abbastanza in forma…
Jimmy si stupì di sentirsi lusingato da quel complimento, anche se era dettato solo dall’istinto di sopravvivenza dell’Antonio Banderas dei rubagalline.
- Senti, ragazzo, come ti ho detto ho una qualche premura, quindi se hai quello che devi darmi, bene; altrimenti dammi almeno un buon motivo da riferire al signor Profumo sul perché torno a mani vuote. So che è la prima volta che succede che non sei puntuale…
- E chi ha detto che non voglio pagare? l’interruppe Tom che aveva spostato il peso dalla gamba destra a quella sinistra e stava mettendo una mano in tasca.
- Ehi, niente scherzi! scattò Jimmy portando la mano alla sua di tasca.
- Calma, amico! Vuoi quel che ti devo? Ce l’ho in tasca…
E tirò fuori un involto. Sembrava un vecchio, e sporco, fazzoletto a quadri bianchi e rossi. Lo aprì con molta calma e ne tirò fuori un mucchietto di banconote che dovevano essere stropicciate ancor prima di finire in quell’improvvisato portafoglio.
- Ecco – disse – questo è quello che devo al signor Profumo. E così dicendo fece un inchino e porse i soldi a Jimmy.
Jimmy tirò fuori da una tasca un fazzoletto bianco e con questo prese i soldi che il ragazzo gli stava porgendo.
- Ehi, quanta arroganza! Non sono mica infestati di pidocchi i miei soldi!
- Meglio essere tranquilli…
- Ma tu te ne vai in giro con questa? - chiese d’un tratto Tom indicando la Mustang oliva slavato.
- Sì, perché, non ti piace?
- No, no, ci mancherebbe! Se piace a te… comunque ha un suo non so che di fascino, è tenuta bene, gomme nuove, tirata a lucido…
- Faccio quello che posso, ragazzo.
Ci fu qualche attimo di silenzio, poi Tom riprese a parlare:
- Allora se tutto è chiarito… spero che il signor Profumo sia soddisfatto. Ti lascio andare alle tue faccende. Dov’è che hai detto che devi andare, stasera, che hai così fretta?
- Non l’ho detto.
Che poi che interessa a questo tipo? pensò Jimmy. Beh, per una volta nella vita poteva essere pure carino, in fondo il ragazzo aveva pagato quel che doveva senza fare storie, e sembrava avere una faccia da buono, per quel tipo di soggetti.
- Più avanti, c’è un night, il Chesnut Club, sulla 14th. Ogni tanto vado a passare qualche serata per rilassarmi.
- Mmh… magari andrai a spendere i soldi che ti sei guadagnato stasera con questo lavoretto facile facile…
- Mmh… magari non sono fatti tuoi…
- Ok, ok, mi arrendo. È stato bello conoscerti ma spero di non vederti più, almeno in queste circostanze.
- Dipende da te, ragazzo…
Tom si girò e andò via. Jimmy cercò di vedere verso quale auto andava, ma una volta che l’altro ebbe girato l’angolo, lo perse di vista. Aspettò qualche minuto per vedere se passava lì davanti verso l’uscita, ma evidentemente aveva lasciato la macchina in qualche altro piano.
Risalì in auto, uscì dal parcheggio, voltò a destra e poi ancora a destra, sulla Santa Monica.
Fatto qualche isolato, entrò sulla 14th Street e poi subito nel parcheggio del Chesnut Club.
Fu una serata come tante.
Incontrò Adam, un vecchio amico con cui parlò di scommesse; cercò come ogni volta di abbordare Fanny, la cameriera irlandese, che come ogni volta lo mandò garbatamente a quel paese da sotto quel diluvio di capelli rossi. Vide un pezzo di una partita di basket in TV, ma tanto distrattamente che quando terminò non ricordava neanche i nomi delle squadre.
Si era fatta l’una e capì che era ora di andare a casa per il sonno del giusto; sarebbe andato l’indomani da Zelany Profumo a portare i soldi di Tom.
Pagò e uscì dal locale.
L’aria della notte era fresca, odorosa del vicino Oceano: gli piaceva quella sensazione di pulizia che gli dava.
Cercò con gli occhi la sua Mustang ma fu invece attratto da qualcosa di giallo che si muoveva verso di lui.
Riconobbe subito una Dodge Nitro MY, che poteva essere di Tom, e che lentamente stava arrivando. Il SUV si fermo a pochi passi da lui e la testa riccioluto di Tom venne fuori dal finestrino.
- Ehi Jimmy, che coincidenza! Vado a fare un giro in cerca di amici e guarda chi ti trovo
- Siamo amici? rispose Jimmy con calma.
- Beh, insomma, neanche estranei…
- Cosa vuoi? disse seccamente l’investigatore, che stava cominciando a sentire qualcosa alla bocca dello stomaco.
- Niente, non ti preoccupare. Te l’ho detto, passavo di qua e ho visto la tua inconfondibile Mustang verde oliva. A proposito è laggiù in fondo, dietro il cartellone dell’insegna del locale. Bye bye!
Accompagnò il saluto con la mano, ingranò la marcia e sgommò verso l’uscita.
Jimmy adesso aveva quasi paura: perché quel tizio era lì ad aspettarlo a quell’ora? Come faceva a sapere dove aveva lasciato l’auto? L’aveva cercata? E perché?
Aspettò qualche istante per essere sicuro che il SUV fosse uscito dal parcheggio e poi si incamminò verso la sua auto.
Vide subito un biglietto sotto il tergicristallo. Con una grafia da seconda elementare c’era scritto: “hai dimenticato di farmi la ricevuta e me la sono fatta da solo”, e sotto: “il tuo amico Tom”.
O Tom era un autentico buontempone, ma in quell’ambiente non esistono buontemponi… buoni, oppure era un pericoloso vendicativo.
Poteva fidarsi di lui? Un’occhiata alla Mustang prima di salirci era meglio darla.
Si inginocchiò e guardò sotto l’auto: pareva che tutto fosse a posto. Aprì il cofano e guardò nel motore: niente fili tagliati o strani pacchetti.
Prima di salire diede un’occhiata anche sotto i sedili, nel cruscotto e dovunque si potesse nascondere qualche regalo indesiderato. La morsa allo stomaco cominciò a sciogliersi; poteva stare tranquillo.
Nel rimettere la semiautomatica nel cruscotto vide il pacchetto di Camel che l’adocchiava dal buio. Ma sì, pensò, me la sono meritata per oggi. Prese una sigaretta e se l’accese.
Ma si poteva dire che era l’ultima della giornata o, vista l’ora, era la prima del nuovo giorno?
Aspirò profondamente e girò la chiavetta dell’avviamento, e mentre lo faceva ebbe un lampo in cui pensò: e se il tipo ha collegato qualcosa all’accensione?
Non scoppiò niente.
Manovrò un po’ per uscire dal parcheggio e si avviò sulla 4th.
Era l’ora in cui sulla KBLA iniziava il programma di swing. Chissà perché la buona musica la fanno solo di notte, pensò.
Accese la radio e proprio mentre girava la manopola saltò tutto per aria.
Della Mustang, di Jeremy e dei soldi di Zelany Profumo non restava niente.
E la ricevuta di Tom era stata consegnata. 
 
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