lunedì 24 agosto 2015

Jack McCoy, uno di famiglia

Questo post per dire che per il prossimo mesetto sarò poco on line causa... lavoro. Per fortuna inizia la scuola e con essa (speriamo!) il lavoro più intenso per me che ho una cartoleria.
Quindi poche visite ai vostri blog, pochi post sul mio.
Sono appassionato di telefilm gialli e polizieschi e seguo da anni le varie serie Law & Order, Criminal Intent, Criminal Mind, e via nominando. Non C.S.I., almeno non le ultime serie che trovo troppo truculente e dove le scene 'insanguinate' sono troppe e inutili, messe lì solo per splatteggiare e attizzare il teleutente malato.
Tengo a precisare che non ho abbonamenti ad alcuna pay tv, quindi i serial che vedo sono solo quelli trasmesse da emittenti in chiaro; perciò niente ultime stagioni o speciali. Insomma solo quello che passa il convento; e mi sta bene così: io la televisione la guardo (e anche poco) quando mi pare, non sono il suo schiavetto.
Chi di voi si diletta di cinema e tv avrà riconosciuto nell'attore oggi in copertina Sam Waterston, divenuto famoso anche e soprattutto come il Vice Procuratore Jack McCoy nella serie Law & Order. Io lo ricordo anche in alcuni film di Woody Allen (tra cui il bellissimo Crimini e Misfatti, che per me resta il capolavoro di Allen) e in un telefilm della serie Ai confini della realtà, di cui non ricordo il titolo e che non ho voglia di andare a cercare su Wikipedia.
Ma non è questo l'argomento del post. 
Ebbene, dopo anni passati a fare il tifo per la Procura di New York rappresentata da McCoy contro i cattivi, qualche settimana fa nella mia mente si è fatta strada un'idea: Sam Waterston somiglia a mio padre.
Ora non pensate ad un sosia, ma molti dei tratti somatici di mio padre li ritrovo in lui.
Non so se sono le sopracciglia folte, i capelli bianchi, il viso squadrato e la pelle indurita sotto il mento, non so se è tutto questo nel suo insieme, fatto sta che ormai ogni volta che Sam Waterston compare sullo schermo io penso a mio padre.
Molto del mio essere chiuso, introverso, riflessivo, nasce dal rapporto con lui, e lo dico senza disturbare Freud. I miei genitori erano persone squisite, corrette, ma non hanno mai esternato un sentimento d'affetto per noi o tra di loro. Non che abbiano abbandonato noi due figli a noi stessi, ma io non ricordo una carezza o un abbraccio. Magari ci saranno stati quando eravamo bambini, ma io dovevo essere talmente piccolo da non averne memoria.
Ecco il mio ricordo di oggi. Ci sarebbe ancora molto da dire, naturalmente, su questo, ma per ora penso possa bastare così.
E voi che ricordo avete dei vostri genitori? O che rapporto avete con loro, se sono (come mi auguro) vivi?

Per finire, ecco la bellissima sigla di Law & Order del geniale Mike Post (in questa serie non c'è però Sam Waterston). 



P.S.: più guardo la foto e più rivedo mio padre, appoggiato ad un pino di Savelli (KR), dove avevamo una casa di montagna.

L'oste Juan



mercoledì 19 agosto 2015

Breve storia di Enzino (racconto)



 ... che voleva ammaestrare le pulci.
Ecco il breve racconto di cui vi avevo parlato qualche giorno fa.
L'idea è nata in treno andando a Luino, mentre leggevo Quando Teresa si arrabbiò con Dio di Alejandro Jodorowsky. Ad un certo punto tra i tantissimi personaggi sopra le righe di cui è popolato il romanzo spunta fuori un ammaestratore di pulci.
Così mi sono chiesto: ma le pulci si possono ammaestrare? So' che è una domanda senza senso, ma allora ci si potrebbe chiedere anche: le pulci esistono veramente? oppure: chi potrebbe voler fare l'ammaestratore di pulci?
E così è nato Enzino, personaggio che vive nel suo mondo dal quale, forse, non vuole uscire. La vita però la pensa sempre diversamente, quando ti stai divertendo e stai realizzando i tuoi progetti.
Insomma questo è il raccontino. Leggetelo se avete voglia e tempo e, sempre se volete, fatemi sapere cosa ne pensate.


BREVE STORIA DI ENZINO,
CHE VOLEVA AMMAESTRARE LE PULCI

Le aveva chiamate Maria Rosa, Berenice e Graziella, come le sue tre nonne.
Fino agli 11 anni non si era nemmeno mai posto il problema del perché lui avesse tre nonne e tutti gli altri due. Né in verità si era mai chiesto come mai portasse i calzoncini corti anche a scuola.
Almeno fino al giorno in cui i due occhi neri neri della ragazzina del secondo banco l’avevano fissato mentre addentava affamato la sua mela scrocchiosa. E allora aveva capito che fuori dalla sua testa esisteva un mondo che poteva essere diverso dal suo, forse più colorato o forse più monotono, ma comunque diverso.
Maria Rosa era la mamma di Cristina, sua madre.
Berenice e Graziella erano le mogli di suo nonno Nicolino.
Nicolino arrivava, spesso, alla domenica pomeriggio a casa sua e Cristina preparava il caffè e metteva sul tavolo qualche biscotto Atene in un piatto bianco che prendeva da sull’acquaio.
Non come quando arriva nonna Maria Rosa con Giuseppe, perché allora tirava fuori le tazzine e i piattini dalla credenza, quelli col bordo d’oro zecchino, preparava il the come aveva imparato non ricordava da chi (ma veniva buonissimo!), e metteva in tavola la torta che aveva preparato al mattino.
A ripensarci non aveva mai visto i cinque nonni insieme, neanche a Natale o per qualche altra occasione speciale.
Un giorno aveva pensato che, però, tutto questo non era giusto, questa disparità, ma non aveva mai chiesto niente perché capiva che erano cose da grandi.
Poi ai suoi tredici anni aveva ricevuto per il compleanno un bel dizionario della lingua italiana, con tantissime parole spiegate per bene. Appena poté andò in camera sua e cominciò a sfogliarlo con una fame che veniva dal cervello invece che dalla pancia. E d’un tratto lesse “bigamo” e capì che, forse, quella parola poteva andare bene per nonno Nicolino.
Ormai era grande, se gli avevano regalato quel bel dizionario e andava a scuola coi pantaloni lunghi come tutti gli altri, così pensò che era arrivato il momento di parlare da grande coi grandi.
Perciò una sera aspettò che suo papà tornasse da lavoro, cenasse e sedesse sulla sua poltrona di similpelle rossa.
“Papà” disse con tono il più rispettoso possibile, “perché nonno Nicolino viene qui con due mogli e nonno Giuseppe ne ha una sola?”
Suo padre lo guardò come se non avesse capito le parole che Enzino aveva appena pronunciato. Fissò il televisore ancora spento, poi diede al figlio un ceffone, ma non forte come le altre. Quindi prese il telecomando e accese l’apparecchio in tempo per l’inizio del TG delle 20,30.
Enzino capì che suo padre non ce l’aveva veramente con lui. Che per quella volta non aveva fatto nessuna marachella che andasse punita. Era solo che non gli andava di rispondere, per qualche ragione che lui non conosceva ma capiva che era importante, perché per tutta la durata del TG il suo papà non fece nessun commento, come invece era solito.
Se quella sera suo padre non ce l’aveva con nessun politico né col papa, voleva dire che la sua domanda era stata più importante.
Enzino teneva i tre animaletti, quelli coi nomi delle tre nonne, in una scatola di legno.
Quando suo cugino Giannino glieli aveva regalati si era raccomandato di tenerli bene perché, aveva detto, ogni bambino si giudica dalla cura che mette nelle sue cose. Così era andato in cantina e aveva trovato quella scatolina che poteva fare al caso suo.
L’aveva colorata con le tempere ma non aveva scritto i nomi delle tre pulci, perché gli sembrava poco rispettoso verso le nonne se qualcuno l’avesse trovata.
All’inizio passava lunghi pomeriggi a fissare le pulci, a cercare di distinguerle tra di loro, ma per quanto si sforzasse era riuscito solo a capire che due litigavano sempre, dandosi zampettate in testa l’un l’altra, mentre la terza se ne stava in disparte. Così chiamò quella solitaria Maria Rosa e alle altre due diede il nome delle mogli di nonno Nicolino, perché anche loro battibeccavano in continuazione, per ogni più piccolo motivo.
Enzino provava a parlare con i tre animaletti, però se non era sicuro che loro capissero o anche solo lo stessero ad ascoltare.
Tutti i giorni, comunque, passava un po’ di tempo con loro, ma non molto più come prima, perché ora gli studi erano più impegnativi e lo distraevano dalla missione che si era dato sin dal primo giorno: ammaestrarle per bene fino a potersi presentare in pubblico e mostrare la sua bravura.
Quando ormai era cresciuto abbastanza da perdere il diminutivo e diventare per tutti Enzo, un giorno fissando Maria Rosa, Berenice e Graziella gli venne spontanea una domanda: ma quanto vivono le pulci? Cioè: è normale che tre esserini così piccoli siano vissuti per tutti questi anni?
E si rispose che, evidentemente, la natura (di cui aveva grande rispetto) sapeva quello che faceva.
Il tempo trascorreva e i suoi sforzi di insegnare alle tre pulci a saltare a comando non davano frutti; tuttavia Enzo continuava ogni giorno a tirare fuori dalla scatolina di legno per una nuova lezione, anche se sempre più breve.
Ormai Enzo aveva la sua bella targa d’ottone sulla porta di casa, che annunciava a tutti che l’avvocato era pronto ad assistere chiunque avesse bisogno della sua perizia professionale.
Poi un giorno Berenice (o Graziella?) rimase nella scatolina quando il coperchio fu tolto, ed Enzo capì che il suo tempo era arrivato.
La prese con delicatezza, se la mise sul palmo della mano sinistra e la guardò a lungo per essere sicuro che non si muovesse più.
Allora afferrò le altre due, le mise vicino alla prima e, senza darsi tempo di pensare, batté una mano sull’altra, con forza.
Maria Rosa, Berenice, Graziella ed Enzino non c’erano più.
Gli rimase tuttavia un dubbio: le pulci possono veramente essere ammaestrate? O era semplicemente che non ne era stato capace?

L'oste Juan

lunedì 17 agosto 2015

Anch'io speravo che, tornando, avrei trovato la pace nel mondo, ma...

Non cercate di leggerci, non capisco neanche io la mia grafia!
Due sole parole: sono tornato.

Non è una minaccia né una promessa ma un dato di fatto.
E non ho trovato né la pace nel mondo né che qualcuno mi abbia fatto un generoso versamento sul conto corrente. Bah!
In verità sono qui da una settimana, ma solo ora riprendo in mano il blog.
Le ferie sono finite già da un po' e devo dire che Luino, dove sono stato, è una bellissima cittadina, molto accogliente e ospitale, nonché (che non guasta!) con ottimi prezzi affatto... vacanzieri, nel senso che si può vivere con il giusto pur trovandosi in un paese turistico.
Unica pecca: nel paese di Piero Chiara non c'è nulla che lo ricordi, se non una decina di totem abbastanza anonimi in luoghi richiamati dallo scrittore nei suoi romanzi. Una delusione! almeno per me che ero andato nella speranza di visitare, che so', la sua casa o qualche altro posto che lo richiamasse.
Nei prossimi giorni posterò un racconto iniziato a scrivere nel viaggio d'andata e terminato a Luino in un paio di giorni. Per ora non vi dico niente, se non che la foto di copertina è la minuta del testo presa dal mio notes.
Ora vi lascio con qualche foto di Luino scattata coi potenti mezzi (!!!) del mio telefonino; e si vede dalla scarsa qualità.

Un bellissimo tramonto (rovinato dalla mia foto)



Il viale alberato del lungolago superiore




 
Famiglia di papere a scuola di nuoto!



Vi stimo grandemente tutti!

L'oste Juan

martedì 21 luglio 2015

... e buone vacanze!

Un autoscatto di speranza contro ogni realtà
Comunque alla fine mi sono arreso anch'io: il blog va in vacanza!
Lui.
Io c'ho ancora una decina di giorni di lavoro e poi faccio una settimana di vacanze. Ma prima di ferragosto rialzo la serranda.
E così colgo l'occasione (non badate a questa prosa aulica, è il caldo... ) per fare un piccolo punto della situazione blogghesca.
Devo dire che sono soddisfatto di come sta andando il nuovo blog. Ho molti meno contatti di prima, parlo di quando c'era Il Garage di Demetrio, ma ci sono stati alcuni post che mi hanno soddisfatto quanto a commenti e dibattiti scaturiti.
Sto riuscendo a dargli un'impostazione più diaristica, o meglio colloquiale, alla ricerca del mio passato, e vorrei continuare così.
Non faccio discorsi colti sull'importanza o la valenza di avere un blog, su come fare a 'sfondare' nel mondo blogghesco, ecc. . Queste cose le lascio agli addetti ai lavori che, più che un blog, sembrano gestire raccoglitori di 'cose', che ricercano solo l'effetto, che scrivono solo di sé stessi per dire: 'quanto sono bravo!'; 'avete visto che con questo post ho raggiunto mille mila contatti?'; 'ma lo sapete che il mio bog è al 12345° posto se digitate il suo nome su Google?'; 'no, no, non mi ringraziate, tutto questo lo faccio per voi che mi adorate e mi idolatrate'; e via discorrendo.
Non credete che ci siano blogger che scrivono solo questo?
Ci sono, ci sono... e sono veramente seguiti da mille mila contatti! Questo mi fa pensare che, fortunatamente, non diventerò mai uno bravo.
E proprio per questo non dovrò avere l'obbligo di pubblicare ogni giorno qualcosa altrimenti lo sponsor (si! questa gente ha lo sponsor che sgancia!) mi dice aurevoir e devo tornare a lavorare sul serio.
Mi sono sfogato? No, non ce l'ho con nessuno, ma vedere e leggere certe cose... Capisco il blogger che si impegna su un argomento, che ne sa veramente qualcosa, che cerca di condividere il suo sapere con gli altri; ma chi va avanti solo con: ieri ho avuto X commenti, che ne dite se cambio l'immagine di copertina?, oggi c'ho le mie cose, mi fa pena, sinceramente.
Penso che la sua vita sia fatta solo di queste cose, di cose che non riesce neanche lui ad afferrare, che si arrampica sugli specchi per mantenersi vivo anche nella realtà quotidiana.
Basta.
Ecco, allora il blog va in vacanza e, a meno di clamorose novità (tipo: mi hanno rapito gli alieni o cambio sesso e mi trasferisco in Islanda), ci risentiamo dopo ferragosto.
Prima di chiudere vorrei lasciare comunque una piccola traccia di riflessione: sapete che io sono cattivo e anche in mezzo a questo caldo afoso vi obbligo a far andare i neuroni! 
Guardavo stamane i giornali e vedevo due immagini, che non metto per motivi che capirete.
La prima è quella dell'esplosione causata da una kamikaze infiltrata in mezzo ad un gruppo di ragazzi ieri a Suruc, a quindici chilometri da Kobane dove progettavano di ricostruire una biblioteca e un centro culturale. Ragazzi che avevano in cuore una speranza e tanta voglia di viverla, di costruire invece che distruggere. E che hanno pagato con la loro vita proprio mentre gridavano al mondo quel che erano arrivati a fare. Sono quelli della foto di copertina fatta qualche istante prima di morire.
La seconda immagine è quella che ho visto sulla pagina facebook di un ragazzo, italiano questa volta, morto ammazzato in questi giorni e che ora tutti piangono per la sua bontà: il solito angelo che ora ci guarda da lassù. Bene, l'immagine è una vignetta in cui qualcuno mette una pistola in bocca ad un poliziotto, spara e il colpo provoca la fuoriuscita del suo cervello. Un'altra foto di questo profilo mostra un ragazzo a terra attorniato da siringhe, profillattici, pillole ecc. a mo' di corona sulla sua testa. E poi ancora una scritta sul muro molto offensiva nei riguardi di giudici e polizia. Non vado avanti.
Mi dispiace aver solo accostato i ragazzi di Suruc a quest'essere ignobile, il cui cervello doveva essere andato in pappa già da un po'.
Non dico altro e non mi interessa di attirarmi le ire di chi pensa che bisogna smettere di criticare, che in tutti c'è qualcosa di buono e che tutti hanno il diritto di esprimere quello che hanno in testa. Spero solo che, la vita, sia come quella dei ragazzi di Suruc, perché un mondo come descritto (e si presume vissuto) dal secondo tizio mi fa paura, anzi vomitare.
Vi lascio con qualcosa di più leggero adatto a queste ultime riflessioni. Buone vacanze a tutti! 


L'oste Juan

mercoledì 15 luglio 2015

Appello agli internauti: c'è qualcuno laffuori?

"Ma mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo proprio?"
Prendo in prestito la famosa battuta da "Ecce Bombo" di Nanni Moretti per mettere su carta (anzi su video) il mio dubbio amletico quotidiano: ma visto che tutti o quasi i blogger che seguo e mi seguono sono ormai in vacanza, che ci sto a fare io qua?
Cioè: se scrivo, qualcuno mi legge? c'è vita al di la del mio schermo?
Così ho pensato di scrivere queste righe anche per fare un giro e vedere se qualcuno ancora risponde.
Un po' come quando ci fu la pandemia, ricordate? Ognuno scriveva il suo diario presumendo che ci fosse ancora qualche sopravvissuto a leggere.
E a proposito di Survival Blog, anche se sono passati tanti anni (quanti?) ho ancora il mio bel racconto da pubblicare. Se avete memoria, almeno chi ha partecipato all'esperimento di Alex, al termine tutti o quasi i sopravvissuti hanno rimesso a posto le loro pagine, aggiunto qualcosa e dato alle stampe ebook con spin off, sequel, prequel e chi più ne ha più ne metta. Ho messo mano anch'io alla mia storia, ne ho scritto un finale ulteriore e... poi è tutto rimasto lì, in un file, abbandonato. Un po' perché sono fatto così: quando una cosa è finita, per me è finita, mi sembrerebbe una minestra riscaldata riproporla. Un po' perché ho cambiato genere di riferimento.
Con la nascita del Commissario Bacone ho iniziato a interessarmi di gialli, polizieschi, ecc. ecc., sia per la scrittura che per la lettura. Basta zombie e vampiri, esoterismo e stranitudini e invece via col mistero misterioso di delitti e investigazioni.
Ma la mia storia pandemica è sempre e comunque lì, bella e impacchettata, pronta per il lancio 'editoriale'.
Un aneddoto a questo proposito.
Quando, finita la pandemia letteraria, ci fu il boom (come dicevo) delle pubblicazioni postume l'amico blogger Luca Morandi, che di grafica è maestro, si offrì di fare la copertina ai vari ebook pandemici che venivano pubblicati. Poiché io non avevo intenzione di dar corso al mio, mentre invece avevo quasi terminato il primo (e finora unico) 'romanzo' del Commissario Bacone, chiesi a Luca se potevo barattare una compertina survivalista con una poliziesca. E Luca acconsentì, facendomi lo splendido regalo che avete visto in copertina.
Ora mi domando: mi deciderò a rilasciare (termine tecnico che usano quelli bravi!) la mia storia?
Può essere. Anzitutto perché ormai è lì finita e impacchettata. E poi perché il racconto inizia il 26 novembre 2015...
Ecco, qualcosina da mettere sotto i vostri denti l'ho messo insieme anche oggi, perciò penso di poter chiudere.
Ehi, laffuori, c'è qualcuno?

 



L'Oste Juan

lunedì 13 luglio 2015

L'odore dell'aria (racconto)



La testata del blog "Autori per il Giappone"
Questo racconto è stato scritto per una buona causa.
L'11 marzo 2011 un terremoto squassò il Giappone, colpendo anche la famosa centrale nucleare di Fukushima, e il mondo si mobilitò per raccogliere fondi.
Lara Manni ebbe l'idea di raccogliere in un sito racconti scritti da chiunque volesse, in modo gratuito, invitando poi il lettore a fare un'offerta a Save the Children.
Non so quanto alla fine si sia realmente raccolto, se qualcuno abbia letto il mio racconto e via dicendo; ma io ho scritto il mio col cuore e con l'anima.
So che anche Glauco ha dato il proprio contributo, almeno tra quelli che facevano (e forse ancora fanno) parte del glorioso blocco C, per usare la definizione coniata da Davide Mana.
Buona lettura.
L’ODORE DELL’ARIA



L’aria è strana, questa mattina.

Apro le persiane e l’alba abbraccia i mobili del mio salotto; un odore di attesa invade i miei polmoni quando spalanco la porta-finestra.

Ringrazio Dio, come tutte le mattine, che anche oggi il sole avvolge la mia casa; ma anche il sole è insolito, come se dovesse dare una brutta notizia.

Guardo l’orologio sul microonde.

Accendo la tele e, mentre ascolto distratto il Tg di un canale commerciale, faccio colazione.

Fette biscottate con marmellata, yogurt e una tazza d’orzo.

Sono anni che comincio così la giornata, anche se fa poco patriottico: io non sopporto proprio le verdure in salamoia.

Sento le notizie dal mondo, quelle sul traffico e poi un oroscopo mi dice quello che farò oggi: “Nezumi: la serata sarà densa di occasioni, dopo un giorno pieno di risultati positivi. Però ci vuole più impegno da parte tua che vuoi sempre il massimo ma col minimo sforzo.”

Chissà chi le scrive queste cose. A volte penso siano cicliche, anzi proprio riciclate: basta cominciare in un momento qualsiasi e andare avanti a inanellare sentenze. Poi, dopo un tot di tempo si ricomincia daccapo. Chi vuoi che si ricordi quello che gli hanno detto sei mesi prima?

L’aria però continua a farsi sempre più densa, più spessa e non è la nebbia che si accalca adesso attorno alle mura della mia casa. A quella sono abituato.

Spazzolo i denti come mi ha insegnato il dentista, mi lavo, mi vesto, controllo se in tasca ho tutte le chiavi che mi servono oggi: casa, macchina, ufficio.

Se è tutto OK posso andare. Anzi posso già anche tornare, perché le cose, da ora in avanti, avranno vita a sé, indipendentemente dalla mia coscienza e volontà.

Potrei anche starmene fermo sul soffitto a guardarmi vivere; tutto andrebbe come deve andare. Anche oggi sarà il solito giorno.

Il mio SUV partirà al primo colpo e mi avviserà se non avrò indossato le cinture di sicurezza. Naora, la segretaria, mi accoglierà con un “Dottore, buongiorno” accompagnato da un sorriso reduce dall’ultima sbiancatura dei denti. Poi le solite telefonate e il caffè delle dieci e trenta coi colleghi.

Intanto il SUV è partito appena ho premuto il pulsante START e un cicalino mi ha ricordato di allacciare la cintura.

Un altro pulsante fa abbassare il vetro dell’auto e una ventata di aria invade l’abitacolo. Continuo a pensare a quest’aria strana, unica nota stonata nella monotonia della giornata appena cominciata.

Ha l’odore di una donna incinta che sta per compiere i suoi giorni, se esiste un odore del genere.

Percorro il viale che porta in ufficio e dall’alto del mio fuoristrada guardo uomini e donne alle prese col loro tempo cronometrato. Cogli anni hanno imparato a guadagnare qualche secondo al passaggio pedonale, al semaforo.

Nessuno però sembra preoccupato di sentire che qualcosa sta per accadere; perché qualcosa accadrà, ne sono certo, lo capisco dall’odore dell’aria.

Il display del cruscotto mi ricorda che è venerdì, l’11 di febbraio.

Il venerdì è il giorno peggiore. Tutti alle quattordici si saluteranno; tutti si daranno appuntamento al lunedì successivo; tutti si augureranno un buon weekend. E ognuno sa che sarà identico a quello della settimana prima e anche del mese prima. Ma a nessuno importa. A nessuno passa per la testa che potrebbe fare qualcosa di diverso, di nuovo, magari anche solo ordinare un bento col pesce invece che con la solita carne, ad accompagnare il riso e le verdure sottaceto.

Ho già preso il caffè delle dieci e trenta e l’aperitivo delle dodici, un abitudine che un collega occidentale portò anni fa, e ho buttato lì un: ma non vi sembra che nell’aria c’è qualcosa di strano, oggi?

Sì, sbotta ridendo Gombei, le puzze che sgancia Kanbe! E tutti hanno riso, battendosi una pacca sulle ginocchia.

Ma io lo sento, percepisco che qualcosa si sta preparando.

“A lunedì, buon weekend.”

“Buona domenica.”

Sto lasciando anch’io l’ufficio per il fine settimana. Chiudo il portatile, lo metto in borsa e aspetto qualche secondo che arrivi Naora a salutare, come sempre.

“Arrivederci, Dottore, si diverta” ammicca dalla porta, e va via anche lei.

Anche oggi ogni cosa è quadrata, niente è andato fuori posto, tutto è stato in ordine, come i capelli della mia segretaria. Tutto tranne l’odore dell’aria.

Il viale a quest’ora è più libero e si cammina meglio.

Mi sto rilassando sul sedie avvolgente dell’auto, pronto a godermi l’inizio dei due giorni di riposo.

Dalla radio, che ho sintonizzato su un canale di classici anni 70, qualcuno ferma a metà una canzone.

“Interrompiamo le trasmissioni per un edizione speciale del giornale radio. L’Agenzia  Jiji Press ha appena lanciato un comunicato secondo cui alle 14 e 46, ora locale, un terremoto di gradi 8,9 della scala Richter ha colpito il Nord-Est del paese. Lanciato un allarme tsunami…”

Mi manca il respiro, così, all’improvviso.

Abbasso un po’ il finestrino e l’aria che entra non è più spessa e strana come è stata per tutta la giornata, oggi.

Adesso è cristallina. Sembra essersi liberata da un peso insopportabile.

venerdì 10 luglio 2015

Il cristomorto del Venerdì Santo



Aprendo vecchie cartelle e file dimenticati, trovo sempre pezzi della mia vita antica.
Antica e non vecchia, perché l'antico è finito in sé, perfetto, concluso; il vecchio è sorpassato, modificato, in fondo ormai inesistente.
Quello che segue è il primo capitolo di un racconto mai terminato di tantissimi anni fa, mi sembra fosse il '90-'92, ma che a rileggerlo ora potrebbe essere inserito benissimo in quel lavoro di autobiografia narrata che ho in testa da un po' e per cui, in fondo, ho aperto questo nuovo blog.
Ho ritrovato in queste righe un pezzo della mia Calabria, quasi un racconto delle sue radici profonde, quelle contadine, che continuano a vivere anche in questi tempi di internet, paytv e simili.
Ve le propongo così come sono, senza ritocchi. Probabilmente chi non conosce la Calabria faticherà a capire alcune cose, alcune situazioni, ma spiegare con una nota a fondo pagina avrebbe significato tradire la mia memoria e quella della mia gente.
Buona lettura!


Molti anni prima, era un tempo che minacciava pioggia.
La lunga processione, dietro la statua del cristomorto, quella del Venerdì Santo, non sembrava interessata a quello che attorno a lei accadeva. Ognuno col suo grande, irresolubile problema che nessun politico o prete poteva capire. Ognuno colla propria vacca che fa poco latte o il figlio handicappato che spacca tutto quando fuori gli ridono dietro e lo rincorrono e prendono a pietre.
Solo lui, il cristomorto del Venerdì Santo si potrebbe impietosire (perché si tratta sempre di avere pietà, mai di giustizia) se l'offerta al prete sarà adeguata, se la statua calerà perfettamente nella fossa scavata religiosamente, senza urtare ai bordi, se...
La lunga processione, silenziosa, camminava tra gli alberi d'arancio, ormai vuoti, cintati di filo spinato. In testa le sottane nere del parroco e dei chierichetti; dietro, dopo la varetta della statua, quelle delle donne. In fondo, perché tutti facessero finta di non vederli, gli uomini, duri e bruni di sole.
Giunsero nel luogo stabilito e tutto si fermò come ad un comando segreto. I portatori della varetta (quegli unici uomini che potevano ufficialmente essere presenti, anzi dovevano), vestiti di un lungo saio nero, avanzarono sino alla grande buca, qualcuno scese dentro con un salto, gli altri cominciarono ad imbracare di grosse funi la statua. Poi, agli ordini di un anziano con un gran mantello bianco sull'abito dei portatori, fecero scendere lentamente il cristomorto nella fossa. A quel punto tutti si fecero ai bordi e cominciarono, ordinatamente a turno, a lanciare monete e banconote sulla statua. Chi già aveva offerto si faceva da parte e altri arrivavano. Durò tutto una decina di minuti, nel più assoluto silenzio, che si poteva sentire la segheria lontana dopo il bosco.
Enrico domandò sottovoce al prete: "Non dici niente, una preghiera, qualcosa?"
Rispose don Lillo: "No, no, niente, che è qua che ci guadagno qualcosa, senno' addio."
Capì che il silenzio faceva parte del rito, perché tutto avvenisse nel modo tramandato per generazioni, quello che solo fa riuscire ogni desiderio della gente.
Enrico non avrebbe riso più di quella risposta dopo qualche anno, quando avrebbe capito il senso della vita di quella gente.
Anche quell'anno nessuna vacca fece più latte del solito e nessun figlio deforme guarì miracolosamente, ma ogni Venerdì Santo poteva essere quello buono e ci poteva essere un po' di pietà per qualcuno.
Aveva visto, Enrico, arrivare in paese qualche politico, grande o piccolo, importante o aspirante tale; nessuno però meritava il rispetto per il cristomorto del Venerdì Santo, forse perché il cristomorto era persona troppo seria per aprire bocca a promettere qualcosa se non quello sentito alla domenica a Messa e ripetuto dal parroco durante le prediche.
In questa terra di cui è impossibile raccontare storie liete o normali perché un dio o uomini più potenti di un dio hanno così stabilito, ogni paese ha il suo cristomorto del Venerdì Santo; in ogni paese il tempo si ferma al Venerdì Santo senza arrivare mai alla Domenica di Pasqua.
Così come ogni paese ha il suo onorevole o amico d'onorevole, simboli borbonici o papalini sopravvissuti, loro sì, a terremoti, pestilenze e governi. Ci furono anche liberatori che passarono da lì durante le guerre di tutti i tempi, ma solo perché era l'unica strada per arrivare a Roma.
Ma qui ogni viso nuovo potrebbe essere quello di chi libera dal predecessore, anche se tutti sanno che in fondo solo il cristomorto del Venerdì Santo è quello che aiuta davvero, forse perché anche lui è morto inseguendo un sogno di libertà.
Chi, meglio di uno che ha sofferto come loro?
Qui, dove tutto è nero e di pietra, le donne sposate e le madonne (solo le notti sono di stelle e di luna splendente), qui dove il mare è così cattivo che obbedisce e si fa attraversare solo dai santi, qui continuano a nascere uomini e a morire bestie.