sabato 15 aprile 2023

Il grosso guaio di Melany

... mi avventuro per un viottolo polveroso.
Cos’è che aveva detto quella voce concitata al telefono?

“Sono in un grosso guaio! La prego, mi aiuti!”

E io stavo andando a vedere che faccia avesse quella voce al telefono.

A naso, anzi ad orecchio, dovrebbe avere sulla ventina, magra, mediamente scolarizzata.

Sono un esperto di voci al telefono, visto che il mio lavoro di investigatore privato inizia sempre con la telefonata di qualcuno che ha un problema.

Seguo il lungo mare fino a quando il navigatore non mi dice di svoltare a destra e aggiunge: “Il punto di arrivo è alla tua destra”.

Alla mia destra c’è un groviglio di lecci; lascio l’auto e mi avventuro per un viottolo polveroso.

Cinquanta metri e compare all’improvviso una casa rossa con una veranda in legno che protegge la porta d’ingresso.

Sulla veranda c’è un’altalena che sta dondolando e solo quando arrivo vicino mi accorgo che il movimento è dovuto alla presenza di una ragazza: è esattamente come l’avevo immaginata.

Sulla ventina (anche qualche anno in più), magra e con un’ampia gonna lunga stile figlia dei fiori. I capelli sono neri e ondulati e coprono le spalle. In questo momento cercano di sollevarsi col movimento dell’altalena, come la gonna.

Diciamo che nel complesso non mi da l’impressione di una persona che si trovi in un grosso guaio e abbia bisogno di aiuto.

“Buongiorno! È Melany?”

“Oh, sì! E lei è Adam?” mi dice fermando il movimento dell’altalena.

“Certo, sono io.”

Mi avvicino e le porgo la mano.

Melany la ignora, si alza e si getta letteralmente su un divanetto in midollino messo contro il muro. Temo per un attimo che crolli sotto il peso, ma regge bene.

“Prego, sieda lì” e mi indica una poltroncina, sempre in midollino, di fronte.

Mi guardo un po’ in giro, più per istinto professionale che per curiosità, e vedo che la casa è immersa completamente nel boschetto di lecci: se la ragazza teme di ricevere visite poco gradite specie di notte, sarà dura intervenire.

“Le posso offrire qualcosa?” mi chiede.

“No, grazie. Preferisco venire subito al dunque.”

“Sì, certamente. Ma è sicuro che non vuole niente? Una birra? Una limonata fresca? Un caffè?”

“No, no, grazie. Ora mi dica.”

“Certo” sospira.

Pare cercare nell’aria dietro di me qualcosa che la ispiri, ma non apre bocca.

Forse non riesce a dare un nome alla sua paura, penso. Eppure mi sembra abbastanza tranquilla, a suo agio…

“Mi ha chiamato un’ora fa dicendo che era in un grosso guaio, e sono arrivato nel minor tempo possibile… “ dico cercando di richiamarla alla realtà.

“Sì, certo, ha ragione. Vede io qui vivo sola e, specie di notte è pieno di rumori… “

“Immagino” dico quando capisco che anche questa volta non spiccicherà più altra parola. “Però è normale con tutti questi alberi attaccati alla casa. D’altra parte da quanto tempo è che vive qui?”

“Tre anni, più o meno… “

“E sempre da sola?”

“Sostanzialmente sì… “

“In che senso: sostanzialmente?”

“Nel senso che… sì, vivo sola.”

“Quindi sarà abituata al silenzio e ai rumori…”

“Ebbè, sì…”

“E allora questa volta cosa c’è di diverso, cosa le fa credere di essere in un grosso guaio?”

“Ma non potremmo darci del tu” mi dice rianimandosi un po’.

“Va bene, diamoci del tu” rispondo e aggiungo mentalmente: ma sbrigati a dirmi qualcosa!

“Ecco, così mi sento meglio!”

“Anche io” le mento “ora dimmi.”

“Sì, certo. Non so se hai sentito parlare di quel ragazzo che è stato aggredito una ventina di giorni fa nel paese qui vicino…”

“Sì, certamente, ma hanno preso il colpevole; era una sua ex.”

“Conoscevo tutti e due, siamo andati a scuola insieme, al liceo.” Si sistema meglio sul divanetto, prende un cuscino di tessuto a quadri grandi rossi e blu alla sua destra e se lo mette in grembo.

“E quindi?”, chiedo

“Quindi, cosa?” ribatte Melany.

“Quindi cosa ha a che fare con il grosso guaio in cui ti sei cacciata?”

Comincio a perdere la pazienza. Sembra un quiz a premi: se scopri la soluzione vinci l’orsacchiotto.

“No, è che pensavo che potrebbe succedere la stessa cosa a me…”

“Quel caso ormai è chiuso. E comunque potresti andare a stare da qualcuno per qualche giorno. Oppure invitare qualcuno a stare con te per un po’.”

In lontananza sento una campana battere le ore: dovrebbe essere almeno un’ora che sono lì.

“Mah… non conosco quasi nessuno qui… Forse potrei chiamare…”

Poi sembra rianimarsi:

“Non potresti venire tu a farmi compagnia?”

“No di certo! Questo non fa parte dei miei obblighi. Potrei venire a dare un’occhiata ogni tanto, se vuoi. E poi comunque mi hai detto di essere in un grosso guaio, non di avere solamente paura…”

“Beh, volevo dire che… è un guaio trovarmi qui da sola e questo mi fa avere pura.”

Nessuno dei due fiata per un po’. Poi prendo l’iniziativa:

“Allora, cosa vuoi che facciamo? Devo capire come muovermi, come organizzarmi.”

Melany guarda l’orologio.

“Sì, certamente… sei certo di non volere una birra fresca?”

“Non voglio una birra fresca!”

Ormai sto perdendo la bussola: non capisco a quale gioco sta giocando quella ragazza.

“E vabbè, non ti arrabbiare! In fondo stiamo facendo due chiacchiere!” risponde.

“Non stiamo facendo due chiacchiere: tu mi hai chiamato dicendo che avevi bisogno del mio aiuto e io sono venuto.”

Vedendo che la ragazza non fiata decido di risolvere una volta per tutte.

“Allora, mi vuoi dire qual è il grosso guaio e cosa posso fare o no?”

Melany fa la faccia da cerbiatta spaventata. Poi riguarda l’orologio e sembra  sollevata.

“Beh, la verità è che mi annoiavo e non sapevo come passare il pomeriggio, almeno fino alle 19, quando comincia il remake di ‘Pantanal’. Hai presente la telenovela con Ingra Lyberato e Claudio Marzio? Ora sono le 18,45, quindi ci siamo quasi…”

“Sono comunque 100 € più IVA, per 2 ore di lavoro. A chi intesto la parcella?” taglio corto.

E termino la storia.

 

(opera coperta da diritti d'autore)

mercoledì 12 aprile 2023

La verità di Ronald

(Racconto di circa duemila parole)
 
Beh, Ronny deve essere da qualche parte...
So che non è un modo originalissimo di iniziare un racconto, ma è andata così, lo giuro…
Questa storia me l’ha raccontata Ronald.
Immagino che voi non lo conosciate, a meno che non bazzichiate spesso tra la Euclide Street e Colorado Ave. Se per caso lo fate, vi sarà capitato di vedere un omino con un panama che è stato bianco ma che ora, a vista, è di un cenere pallido con macchie multicolori sparse.
Un po’ per lo smog che appesta quella zona, un po’ per il vezzo di Ronald di inchinarsi facendo la mossa di togliersi il cappello ogni volta che vede passare qualche bella figliola o qualche signora ben tenuta. E in più di 50 anni di stazionamento sui marciapiedi di Santa Monica di belle figliole e signore ben tenute ne ha viste passare una moltitudine!
Comunque, qualche giorno fa mi trovavo all’altezza dell’11th, dove c’è il concessionario Audi (grandi macchine, quelle che vengono dall’altra parte dell’oceano!), e lo vedo seduto su una panchina a fumare la sua pipa di schiuma bianca.
Ronny (perché è così che tutti lo chiamano) è orgoglioso della sua pipa bianca regalo, dice lui, di una gran dama di Long Beach. Racconta che la gran donna gliela regalò per ringraziarlo di quella volta in cui, lui era ancora giovane e scattante, riuscì a bloccare il ladruncolo che l’aveva scippata della borsa. Così la gran signora, sempre a suo dire, gli chiese come avrebbe potuto sdebitarsi per quel favore e lui, che non aveva mai fumato in vita sua, chiese lì per lì la pipa di schiuma che aveva visto quella stessa mattina nella vetrina del negozio all’angolo.
Sono passati un mucchio di anni e la pipa è ancora in mano a Ronny. Non è più candida come il primo giorno (come il panama, del resto), ma ancora perfettamente in servizio.
Sì, bisogna dire che Ronny e la pipa formano una bella coppia. Si potrebbe quasi dire, parlando di Ronny, che è ‘quello della pipa bianca’.
E allora, vedo Ronny sulla panchina e poiché la mia pausa pranzo dura quanto voglio io (giacché fare il rappresentante di barattoli di marmellata ha anche questo vantaggio) decido di fermarmi un po’ con lui.
“Ronny!” gli urlo, avvicinandomi alla panchina.
“Mitch!” mi risponde Ronny, facendomi un po’ di spazio accanto a lui.
Meno male che ho imparato a non fare troppo lo schizzinoso, vivendo soprattutto per strada a causa del mio lavoro, altrimenti sedere dove fino a un attimo prima c’erano resti di burritos e hamburger non sarebbe stato igienico per i miei calzoni color sabbia. Così ho poggiato il Santa Monica Mirror, appena acquistato alla macchinetta L.A. Press, sulla panchina e mi sono seduto. Ronny mi omaggia di uno dei suoi sorrisi più sinceri e mi chiede come va.
“Non c’è male” rispondo “e a te?”.
“C’è il sole, la pipa è piena e ho appena fatto un lauto pranzo. Che voglio di più!”
Un auto sgomma all’incrocio e Ronny fa la faccia contrariata e comincia:
“Sempre di corsa, la gente… Che poi, dove va? Le cose vanno come devono andare: sei in ritardo? Ci sarà un motivo. Tu non lo sai, ma un motivo c’è! E deve essere anche un buon motivo, perché la tua vita cambierà…”
“Sei sul filosofico, stamattina.”
“Maaah! Oggi… ecco, guarda quella dell’altro marciapiede” e mi indica una donna sulla 50ina con una paio di zatteroni alti 20 centimetri e una parrucca rosso fuoco, “ti pare normale quella? No! Se poi cade…”
La donna barcolla per un attimo, cerca di afferrarsi all’uomo che gli passa accanto e cade.
“Portassi jella?!” dico a Ronny.
“Ma quale jella! È normale che a quell’età non ti puoi reggere in piedi su scarpe come quelle! Il mondo è sbagliato, caro Mitch! È tutto sottosopra! Ti faccio un esempio: conosci la storia di Learco Orsini?"
Ed è a questo punto che mi racconta la storia che volevo condividere con voi.
Se avete voglia e qualche minuto di tempo, ve la racconto.
Learco Orsini era figlio di Werter Orsini e di Janet Blakey, nato e cresciuto a Dallas, come i genitori. Werter, anche lui cresciuto a Dallas, era figlio di Learco Orsini - il senior, arrivato da Novafeltria, in Italia, nel primo decennio del secolo scorso. Learco senior aveva saputo della bomba atomica quando ormai si considerava americano a tutti gli effetti, perché l’America l’aveva accolto, gli aveva dato un lavoro, fatto dimenticare -forse- le sue colline romagnole. A Quinlan, pochi kilometri dal lago di Tawakoni e da Waco Bay, aveva conosciuto Wilma Sergenti, figlia di immigrati come lui, emiliana (a Learco non gli interessava che non fosse romagnola: con quegli occhi poteva essere pure prussiana!) e dell’età giusta per metter su una bella famiglia all’italiana. Nonostante i buoni propositi di entrambi, dal matrimonio era venuto solo Werter, per motivi che nessuno seppe mai veramente. Ci furono molte dicerie e indiscrezioni, specie sulle prestazioni di Werter, tanto che dopo qualche anno la famiglia si trasferì a Dallas, lontano da tutto e da tutti.
Il lavoro di Werter ingranò bene e Learco junior poté crescere agiatamente, frequentare buone scuole (anche se non le migliori) e avere un giro di amici tranquilli e sempre con qualche dollaro in tasca come lui.
“Questa è una bella storia. Dove sta il mondo sottosopra?” gli chiedo.
“E infatti è proprio qui che comincia a sgretolarsi tutto” risponde Ronny.
Il crollo iniziò quando Werter e Wilma morirono a distanza di poco tempo, quando Learco aveva all’incirca 40 anni, continuò a raccontare Ronny.
Werter aveva un bel negozio di statuine di gesso che produceva lui personalmente, facendole a mano nel retrobottega, dove aveva anche un bel forno per ceramica che affittava ad ore a chiunque ne avesse bisogno.
“Anche Learco… “ riprese Ronny.
L’interruppi perché era da un po’ che volevo chiederglielo:
“Ma lo chiamavano proprio così: Learco, il figlio? Cioè, voglio dire, non è un nome comune qui… “
Ronny fece un mezzo inchino ad una ragazza che, passando, gli aveva sorriso. Poi tornò a me.
“Certo che no! Tutti lo conoscevano come Lemmy, forse a causa di quel film con Lemmy Caution, l’investigatore privato. Learco, dicevo… “
“Lemmy, vuoi dire… Mi si appiccica il cervello solo a sentirlo quel nome… “
“Ok. Lemmy… “ E mi racconta di come Lemmy aveva dilapidato il patrimonio di famiglia in poco tempo.
In effetti modellare e muoversi tra le statuine di gesso e ceramica che il padre gli aveva lasciato in eredità come lavoro non aveva motivato Lemmy a fare salti di gioia.
“Vendere souvenir e bomboniere non faceva per lui, diciamo la verità. E poi per gli affari bisogna esserci portati. Lemmy, invece… bah, lasciamo stare! Pian piano nessuno cominciò a pagare l’uso del forno con la scusa che gli affari gli andavano male. La qualità delle sue statuine, poi, non era nemmeno lontanamente simile a quella del padre; così che Lemmy decise di non produrle più da sé ma di acquistarle da altri.”
Ma in tutti questi passaggi, le spese diventarono ben presto più degli incassi e il conto in banca cominciò a soffrire.
“Ora, non so se tu conosci Jeffrey Duck…” dice Ronny.
“Chi è che non conosce Jeffrey la Papera! Lo strozzino! Aspetta… mi vuoi dire che Lemmy si rivolse a lui?”
“Essì, andò proprio così. Cioè: non subito ma… fammela raccontare come la so!”
Ronny si stava accalorando: era meglio lasciarlo andare alla sua velocità.
“Bisognava pagare i fornitori, le bollette elettriche, mantenere la famiglia… e ti assicuro che Emily non aveva proprio la mano della donna di casa.”
“Ora chi è Emily?” lo blocco.
“Hai ragione, non te ne ho parlato. Emily era la moglie di Lemmy. O meglio: era la donna che sposò Lemmy quando ancora Lemmy era il figlio, e soprattutto l’erede, di Werter. Non so se mi sono spiegato…”
“Beh, sì, certo. Diciamo che Lemmy sposò Emily, ma che Emily sposò i soldi di Werter.”
“Vedo che sei sveglio, Mitch!”
“Messa così non ci vuole molto a capire.”
Ronny si lanciò in tutta una serie di storie e storielle su Emily, sul suo amore per le cose belle e costose, per le feste di un certo livello e per i ragazzoni muscolosi.
“Ma avrà avuto almeno 50 anni a quel tempo!” dissi, intuendo comunque l’andazzo della storia.
“Certo! Ma Emily sapeva come spargere miele vicino a lei. Peccato, però, che le api che le ronzavano attorno, non erano della migliore qualità. E una di queste fu proprio Jeffrey la Papera.”
“Quindi Lemmy si rivolse a lui per pagare i debiti?”
“No! Almeno: all’inizio no, fu Emily che si faceva mantenere gli sfizi e gli sfarzi da Jeffrey ma coi soldi di Lemmy.”
“No, aspetta, qui non ci arrivo…”
“Per questo ti dicevo che il mondo va alla rovescia!”
E inizia a raccontare di come Emily frequentasse locali notturni con Jeffrey facendo mettere tutto in conto al marito il quale, naturalmente, non ne sapeva niente.
“E come mai i locali mettevano in conto a uno che non avevano mai visto né sentito? Non ha senso?!”
“Perché c’era Jeffrey! E quando Emily diceva: segna a nome di Lemmy, e vicino aveva la Papera, era come una garanzia per loro.”
Finché un giorno i conti da saldare cominciarono ad essere pesanti e qualcuno volle sapere chi fosse e dove abitasse questo Lemmy Orsini.
“E qualcuno andò a trovarlo…” dico.
“Esatto. Avresti dovuto vedere la faccia di Lemmy quando si presentò in negozio un tipo con una giacca troppo gonfia sotto l’ascella e la mano troppo grossa per essere uno che maneggia statuine in gesso. Lui dapprincipio non ci capì niente di quello che l’uomo gli stava raccontando, e come poteva! ma poi gli si accese una lampadina e gli si spense la voglia di ridere.”
Così Lemmy chiese qualche giorno per capire cosa fare e andò a parlare con Emily. La quale non gli diede tante spiegazioni, ma disse semplicemente: “C’è da pagare, e se non hai i soldi è meglio che te li fai dare da qualcuno.” A questo punto la stessa Emily tirò fuori il nome di Jeffrey Duck e ci fu la quadratura del cerchio. La vendita del negozio bastò a malapena per pagare i conti dei locali di Emily, gli interessi della Papera e i debiti dell’ormai moribonda attività di statuine in gesso.
“E ora che fine ha fatto Lemmy?” chiedo.
Ronny si accende la pipa e fa un paio di tiri.
“Lemmy è morto, 3 o 4 anni fa. L’ho incontrato qualche volta fuori dai supermercati a raccattare qualcosa da mangiare e soprattutto da bere. Ho sempre detto che puoi mendicare e dormire sotto i ponti, ma bere: mai! Ti toglie l’onore e la rispettabilità!” e si volta a farmi uno dei suoi sguardi pieni di dignità.
“E Emily?”
“Emily ebbe ancora un paio di anni di buono, se capisci quello che voglio dire. Fece coppia fissa con la Papera ancora un po’ dopo il fatto di Lemmy; poi Jeffrey la passò ad un suo scagnozzo che stava facendo carriera e alla fine sparì dalla circolazione. Pare che anche lei tiri a vivere da qualche parte vicino a Santa Monica.”
Ronny si poggia soddisfatto alla spalliera della panchina. Io guardo l’orologio e penso sia l’ora di riprendere il mio giro coi barattoli della marmellata. Ho solo un ultimo dubbio.
“Scusa, Ronny, ma tu come fai a sapere tutte queste cose, fin nei minimi dettagli…”
“Non le so, le immagino. Ma se le cose sono andate così è una bella storia, vero?” e mi sorride soddisfatto! 
 
(opera protetta da diritti d'autore)

sabato 11 marzo 2023

La ricevuta

Mustang verde oliva del 1970 (ma non è quella di Jimmy...)
(Breve raccontino da duemila parole)

Percorse tutta Santa Monica Boulevard, dall’incrocio con Overland Ave fin quasi a Ocean Ave.
Con calma, dandosi il tempo di adocchiare i palazzi e le case a destra e a sinistra, come un turista svogliato. L’appuntamento era alle dieci e mezza e adesso l’orologio sul cruscotto diceva: 22:10.
La vecchia Buick del 1970 lo scarrozzava ancora bene, nonostante l’età e tutti i suoi rumorini.
Guidava quell’auto non perché servisse alla sua immagine di investigatore privato, ma perché con la cifra che il suo conto corrente gli aveva messo a disposizione era riuscito ad acquistare solo un modello così vecchio.
Però pian piano aveva imparato ad apprezzarla, compreso quel suo colore oliva slavato che all’inizio gli stava proprio sul gozzo. Anzi si poteva dire che quell’auto era diventata quasi un suo prolungamento, un pezzo imprescindibile della sua giornata. Insomma, di giorno viveva in simbiosi con quell’auto.
Cambiò stazione alla radio. Non gli interessavano quelle diavolerie moderne di CD o chiavette USB o, peggio ancora, i “sistemi integrati” che non sapeva manco bene cosa volesse dire.
Era un tipo semplice, lui.
Jeremy Pearl, che tutti chiamavano Jimmy, 46 anni portati così così, di media statura, capelli castani tagliati corti, niente barba ma la mosca sotto il labbro, e un abbonamento annuale alla palestra che non utilizzava ormai da sei mesi; e si vedeva.
Professione, dicevamo: investigatore privato.
Ogni volta che lo diceva, immaginava l’effetto che forse stava facendo sul suo interlocutore; e ne gongolava dentro.
Ma la realtà era diversa. Dopo quel primo caso che gli aveva dato un certo nome in città (ricordate la pietra di zaffiro rubata alla famosa diva e ritrovata da lui? sì, fu per un puro caso: si trovò al posto giusto al momento giusto, nulla di più…), dopo quel primo caso, dicevo, solo qualche pedinamento di fedifraghi; finché ne aveva avuto il fisico, qualche serata da accompagnatore / guardia del corpo per stelline in certa di visibilità; qualche dipendente infedele diventato ladruncolo e beccato sul colpo… cose così, insomma.
Poi aveva dovuto, gioco forza se voleva mangiare almeno due a volte al giorno, accettare di ritrovarsi sul libro paga di qualche personaggio di dubbia moralità.
Jimmy aveva sempre il cellulare acceso e disponibile per Mario LoVito, Alfreduccio Vona, Zelany Profumo. Sempre pronto a farsi dare l’indirizzo di qualcuno a cui risvegliare la memoria, da cui andare a prendere un pacchettino, ecc. ecc. .
Non cose grosse, ché per quelle c’era gente un po’ più ben messa di lui e con la pelle già abbondantemente bucata e ricucita, bucata e ricucita.
Lui andava bene per piccoli fastidi e anche per questo costava poco. Ma a lui bastava.
Era all’incrocio con la 4th Street, fermo al semaforo. Al verde girò a destra, altri 200 metri e sulla sinistra vide un Public Parking; mise la freccia ed entrò.
Rimase sul piano e cercò un posto vicino all’entrata: non si sa mai come vanno le cose, era sempre il suo motto.
Il nome di quella sera, quello a cui fare un discorsetto, era Tom, Tom Barroso.
Gli aveva dato appuntamento lì perché il Parking era a qualche isolato dal Chesnut Club, sulla Santa Monica, un night dove lasciava sempre un bel po’ di dollari quando ne aveva da spendere. Il prezzo del gin era alle stelle ormai e l’arredo femminile sempre più esigente.
Tom gli aveva detto di avere una Dodge Nitro MY gialla del 2010. Bella macchinina, aveva pensato Jimmy. E com’ è che con quel bolide non riusciva a saldare un debituccio a Zelany? si chiese.
Prese la piccola semiautomatica dal vano porta oggetti e la mise in tasca.
Scese dall’auto.
Erano le dieci e venti ma cominciò ugualmente a guardarsi attorno: un’auto gialla non rimaneva anonima e poteva darsi che Tom fosse già lì.
In vista non c’era nessuna auto di quel colore così vistoso, né piccola né grande.
Si poggiò al cofano della sua Mustang e incrociò braccia e gambe. Così facendo diede anche una controllatina alla pistola nella tasca della giacca senza dare sospetti.
Un’altro sguardo al mare di auto parcheggiate, e niente.
Ma da dietro una colonna quadrata a qualche metro da lui spuntò un uomo, più che altro un ragazzo, che avrebbe potuto essere un ispanico.
Avete presente un Antonio Banderas sui vent’anni? Ecco, proprio lui. Ma con una faccia cattiva, di uno che dalla vita non si aspetta passerelle e riflettori ma celle buie e coltelli volanti.
Si scambiarono un’occhiata e si agganciarono.
Tom, se era lui, gli si avvicinò con molta calma e si poggiò al cofano della macchina di fianco alla sua. Ognuno guardava davanti a sé.
- Tom?
- Jimmy?
- Facciamo in fretta o devo farti il ripasso? Sai, ho un po’ di premura…
Tom si allontanò dall’auto e fece per piazzarsi davanti a Jimmy. Ma Jimmy lo anticipò e si spostò a sua volta: non poteva dargli il vantaggio di stargli in piedi mentre lui era seduto e sbilanciato, nel caso l’avesse aggredito.
- Tranquillo, amico, non voglio farti del male. Anche perché con quella pistola che hai nella tasca della giacca faresti sicuramente più male tu a me. Hai qualche annetto ma da quel che vedo sei ancora abbastanza in forma…
Jimmy si stupì di sentirsi lusingato da quel complimento, anche se era dettato solo dall’istinto di sopravvivenza dell’Antonio Banderas dei rubagalline.
- Senti, ragazzo, come ti ho detto ho una qualche premura, quindi se hai quello che devi darmi, bene; altrimenti dammi almeno un buon motivo da riferire al signor Profumo sul perché torno a mani vuote. So che è la prima volta che succede che non sei puntuale…
- E chi ha detto che non voglio pagare? l’interruppe Tom che aveva spostato il peso dalla gamba destra a quella sinistra e stava mettendo una mano in tasca.
- Ehi, niente scherzi! scattò Jimmy portando la mano alla sua di tasca.
- Calma, amico! Vuoi quel che ti devo? Ce l’ho in tasca…
E tirò fuori un involto. Sembrava un vecchio, e sporco, fazzoletto a quadri bianchi e rossi. Lo aprì con molta calma e ne tirò fuori un mucchietto di banconote che dovevano essere stropicciate ancor prima di finire in quell’improvvisato portafoglio.
- Ecco – disse – questo è quello che devo al signor Profumo. E così dicendo fece un inchino e porse i soldi a Jimmy.
Jimmy tirò fuori da una tasca un fazzoletto bianco e con questo prese i soldi che il ragazzo gli stava porgendo.
- Ehi, quanta arroganza! Non sono mica infestati di pidocchi i miei soldi!
- Meglio essere tranquilli…
- Ma tu te ne vai in giro con questa? - chiese d’un tratto Tom indicando la Mustang oliva slavato.
- Sì, perché, non ti piace?
- No, no, ci mancherebbe! Se piace a te… comunque ha un suo non so che di fascino, è tenuta bene, gomme nuove, tirata a lucido…
- Faccio quello che posso, ragazzo.
Ci fu qualche attimo di silenzio, poi Tom riprese a parlare:
- Allora se tutto è chiarito… spero che il signor Profumo sia soddisfatto. Ti lascio andare alle tue faccende. Dov’è che hai detto che devi andare, stasera, che hai così fretta?
- Non l’ho detto.
Che poi che interessa a questo tipo? pensò Jimmy. Beh, per una volta nella vita poteva essere pure carino, in fondo il ragazzo aveva pagato quel che doveva senza fare storie, e sembrava avere una faccia da buono, per quel tipo di soggetti.
- Più avanti, c’è un night, il Chesnut Club, sulla 14th. Ogni tanto vado a passare qualche serata per rilassarmi.
- Mmh… magari andrai a spendere i soldi che ti sei guadagnato stasera con questo lavoretto facile facile…
- Mmh… magari non sono fatti tuoi…
- Ok, ok, mi arrendo. È stato bello conoscerti ma spero di non vederti più, almeno in queste circostanze.
- Dipende da te, ragazzo…
Tom si girò e andò via. Jimmy cercò di vedere verso quale auto andava, ma una volta che l’altro ebbe girato l’angolo, lo perse di vista. Aspettò qualche minuto per vedere se passava lì davanti verso l’uscita, ma evidentemente aveva lasciato la macchina in qualche altro piano.
Risalì in auto, uscì dal parcheggio, voltò a destra e poi ancora a destra, sulla Santa Monica.
Fatto qualche isolato, entrò sulla 14th Street e poi subito nel parcheggio del Chesnut Club.
Fu una serata come tante.
Incontrò Adam, un vecchio amico con cui parlò di scommesse; cercò come ogni volta di abbordare Fanny, la cameriera irlandese, che come ogni volta lo mandò garbatamente a quel paese da sotto quel diluvio di capelli rossi. Vide un pezzo di una partita di basket in TV, ma tanto distrattamente che quando terminò non ricordava neanche i nomi delle squadre.
Si era fatta l’una e capì che era ora di andare a casa per il sonno del giusto; sarebbe andato l’indomani da Zelany Profumo a portare i soldi di Tom.
Pagò e uscì dal locale.
L’aria della notte era fresca, odorosa del vicino Oceano: gli piaceva quella sensazione di pulizia che gli dava.
Cercò con gli occhi la sua Mustang ma fu invece attratto da qualcosa di giallo che si muoveva verso di lui.
Riconobbe subito una Dodge Nitro MY, che poteva essere di Tom, e che lentamente stava arrivando. Il SUV si fermo a pochi passi da lui e la testa riccioluto di Tom venne fuori dal finestrino.
- Ehi Jimmy, che coincidenza! Vado a fare un giro in cerca di amici e guarda chi ti trovo
- Siamo amici? rispose Jimmy con calma.
- Beh, insomma, neanche estranei…
- Cosa vuoi? disse seccamente l’investigatore, che stava cominciando a sentire qualcosa alla bocca dello stomaco.
- Niente, non ti preoccupare. Te l’ho detto, passavo di qua e ho visto la tua inconfondibile Mustang verde oliva. A proposito è laggiù in fondo, dietro il cartellone dell’insegna del locale. Bye bye!
Accompagnò il saluto con la mano, ingranò la marcia e sgommò verso l’uscita.
Jimmy adesso aveva quasi paura: perché quel tizio era lì ad aspettarlo a quell’ora? Come faceva a sapere dove aveva lasciato l’auto? L’aveva cercata? E perché?
Aspettò qualche istante per essere sicuro che il SUV fosse uscito dal parcheggio e poi si incamminò verso la sua auto.
Vide subito un biglietto sotto il tergicristallo. Con una grafia da seconda elementare c’era scritto: “hai dimenticato di farmi la ricevuta e me la sono fatta da solo”, e sotto: “il tuo amico Tom”.
O Tom era un autentico buontempone, ma in quell’ambiente non esistono buontemponi… buoni, oppure era un pericoloso vendicativo.
Poteva fidarsi di lui? Un’occhiata alla Mustang prima di salirci era meglio darla.
Si inginocchiò e guardò sotto l’auto: pareva che tutto fosse a posto. Aprì il cofano e guardò nel motore: niente fili tagliati o strani pacchetti.
Prima di salire diede un’occhiata anche sotto i sedili, nel cruscotto e dovunque si potesse nascondere qualche regalo indesiderato. La morsa allo stomaco cominciò a sciogliersi; poteva stare tranquillo.
Nel rimettere la semiautomatica nel cruscotto vide il pacchetto di Camel che l’adocchiava dal buio. Ma sì, pensò, me la sono meritata per oggi. Prese una sigaretta e se l’accese.
Ma si poteva dire che era l’ultima della giornata o, vista l’ora, era la prima del nuovo giorno?
Aspirò profondamente e girò la chiavetta dell’avviamento, e mentre lo faceva ebbe un lampo in cui pensò: e se il tipo ha collegato qualcosa all’accensione?
Non scoppiò niente.
Manovrò un po’ per uscire dal parcheggio e si avviò sulla 4th.
Era l’ora in cui sulla KBLA iniziava il programma di swing. Chissà perché la buona musica la fanno solo di notte, pensò.
Accese la radio e proprio mentre girava la manopola saltò tutto per aria.
Della Mustang, di Jeremy e dei soldi di Zelany Profumo non restava niente.
E la ricevuta di Tom era stata consegnata. 
 
 (opera protetta dai diritti d'autore)

martedì 7 marzo 2023

Come avvenne che gli alieni non invasero più la terra

 

Masolino da Panicale, Fondazione della Basilica Maggiore

(Breve raccontino, meno di 2000 parole, fantaumoristico. A voi.)


Il primo attacco iniziò alle 9 di mattina.

Dieci oggetti oblunghi, riflettenti la luce del sole e che, a occhio nudo, misuravano almeno un ventina di metri di lunghezza, scesero  in formazione compatta verso il paese.

Giunti a una cinquantina di metri d’altezza cominciarono a sparare  convogliando la loro forza di fuoco su oggetti specifici: un semaforo, un albero, un furgoncino del latte, una panchina.

Ognuno di questi oggetti fu completamente disintegrato, compreso tutto il terreno su cui si trovava.

Mentre ancora gli obbiettivi della loro incursione stavano crollando a terra sbriciolati, gli oggetti non identificati virarono con una velocità e inclinazione impossibile per un velivolo terrestre e sparirono in alto.

In verità, poiché l’azione era stata compiuta nel più assoluto silenzio, nessuno, se non Branaghan lo spazzino, vide o si accorse di nulla. Bannack non è una città molto sveglia a quell’ora del mattino.

E anche quando l’uomo che puliva ogni giorno le strade della simpatica cittadina del Montana, quasi al confine con l’Idaho, provò a spiegare cosa aveva visto, nessuno gli credette: le abbondanti quantità di rum che sin dal mattino lo tenevano in piedi per svolgere quel lavoro che gli permetteva di acquistare il rum stesso, erano una spiegazione sufficiente agli abitanti del paesino per non credere a nulla di ciò che diceva.

Ma stava di fatto che il semaforo, l’albero di fronte la casa del sindaco, una panchina e il furgoncino del latte di Ramon era diventati cenere.

Soprattutto Ramon ebbe a protestare: senza il furgoncino comprato con la vincita alla lotteria della contea, come avrebbe potuto continuare a lavorare? E tutti quelli che gli vendevano il latte da portare in giro a chi si sarebbero rivolti, ora? Chi si sarebbe avventurato fino a Bannack dai paesi vicini per portare le bottiglie del latte se non un abitante del paese stesso? Perché portare il latte fino a Bannack non era mai stato un vero affare…

Avvisato da Branaghan, lo sceriffo di Bannack, che tutti chiamavano Jeff ma di cui nessuno conosceva il cognome, si trovò così costretto a lasciare il suo ufficio e, in compagnia di Rudy il vice sceriffo, andò a constatare quello che era successo.

Jeff, lo sceriffo, passò tutta la mattinata andando avanti e indietro dal punto dove si trovava la panchina a quello dove stava il furgone di Ramon, all’incrocio dove pendeva il semaforo. Ma non ci capì niente, non volendo credere neanche lui alle parole di Branaghan.

Alla fine decise di chiamare la polizia della contea per segnalare il fatto e ordinò a Branaghan di ripulire le strade piene di detriti.

Il secondo attacco si verificò verso le due del pomeriggio, quando ogni abitante di Bannack è impegnato a fare qualcosa che si possa fare in casa, e non altrove.

Ogni abitante tranne Branaghan, che a quell’ora ha finito di ripulire le strade della cittadina e aspetta che arrivi l’ora decente per andare a sedersi al bar di Pet e Sally e tirare a fare notte in compagnia di qualche altra bottiglia di rum.

Infatti fu Branaghan che vide ciò che accadde: ancora dieci oggetti oblunghi scesero in picchiata su Bannack e, arrivati a una cinquantina di metri dal suolo, spararono e disintegrarono la cassetta della posta della Libera e Ubiqua Università del Montana, la fila di panni stesi di Miss Bakery (maestra in pensione) e l’albero di cipresso di Mike Bradbury, che comunque era già completamente rinsecchito e doveva essere tagliato; perciò questo alla fine si rivelò un fatto a favore di Mike.

Branaghan corse a chiamare lo sceriffo Jeff che usci malvolentieri dalla sua casa, soprattutto perché pensava che lo spazzino avesse ancora i postumi della sbronza del mattino in attesa di quella della sera.

Ma si dovette arrendere davanti a ciò che restava della cassetta della posta, del cipresso di Mike e soprattutto dovette cedere alle urla della anziana Miss Bakery che protestava perché proprio quella mattina aveva lavato tutte le tovaglie da tavolo di sua nonna, e ora non ne restava che un grosso mucchio di cenere. E voleva che qualcuno facesse qualcosa.

La polizia della Contea non era ancora arrivata, anche perché aveva dichiarato lo sceriffo Jeff, non gli era sembrata molto convinta di quella chiamata così strana, per cui avrebbe raggiunto Bannack solo l’indomani.

Così lo sceriffo non fece che chiedere a Branaghan di riprendere scopa, paletta e bidone e pulire la strada.

Il terzo attacco avvenne alle nove di sera, ripetendo lo schema solito: dieci oggetti oblunghi scesero in picchiata su Bannack e, arrivati a una cinquantina di metri dal suolo, spararono tutti insieme come un sol colpo e disintegrarono, questa volta, la mucca di John Durbridge, il triciclo (abbandonato in  giardino) di Coole, il figlio di Eberard Brenner e l’insegna del negozio di pesca di George Adler.

La mucca di John Durbridge fu il primo (e unico) essere vivente vittima degli attacchi di quegli oggetti non identificati.

E anche questa volta fu solo Branaghan, di antica discendenza irlandese come suggerisce il nome, a vedere tutta la scena. Infatti a quell’ora della sera a Bannack chi non si trova nel bar di Pet e Sally a sbronzarsi è a casa propria davanti alla TV o alla radio.

Branaghan era invece uscito proprio in quel momento per svuotare la vescica sotto il grande olmo del Montana davanti al bar.

Così fu accecato da una gran luce, prodotta dai raggi che stavano disintegrando la mucca di John, e poté seguire con gli occhi lo stesso raggio completare l’operazione.

E fu così che qualcuno nel bar sentì Branaghan che imprecava perché si era bagnato le scarpe semi nuove che aveva ai piedi, le uniche che non fossero quelle da lavoro.

Questa volta Jeff lo sceriffo era al bar, già abbastanza brillo ma non tanto da non capire che gli sarebbe toccato lasciare a metà il boccale di birra rossa che aveva davanti e che si sarebbe dovuto fare un’altra scarpinata per guardare in giro i danni fatti dall’ultimo raid alieno; o di qualunque natura fossero quelle cose nel cielo.

Alla notizia che qualche altro pezzo di Bannack era stato polverizzato da chissacchì, un paio di avventori del bar uscirono sulla soglia e videro Branaghan che si stava ancora guardando le scarpe bagnate e le stava anzi mostrando con aria risentita a Jeff lo sceriffo, che annuiva abbastanza convintamente.

I due avventori tornarono alle loro faccende da bar, mentre lo spazzino e il sindaco si avviarono, con qualche mancamento, specie da parte di Branaghan, verso il negozio di articoli da pesca di George Adler e presero a fissare quello che restava dell’insegna: praticamente niente; c’era solo il buco in cui c’era stata la scritta.

A questo punto, scambiate due parole, sia Jeff che Branaghan tornarono al bar e la cosa fu provvisoriamente chiusa lì perché, come disse a tutti il sindaco, per quella sera non si poteva fare comunque niente. Nessuno, nel frattempo, aveva toccato il suo boccale di birra a metà.

Quella sera, a tarda ora, forse la mezzanotte o più, Branaghan stava rientrando a casa.

Seguiva gli alberi del viale davanti al bar di Pet e Sally, dopo aver girato sulla destra, e sapeva di dover voltare al diciottesimo platano: si regolava così perché dopo l’abbondante libagione giornaliera l’unica cosa che riusciva a fare era contare.

Il quindicesimo platano era già passato, quando sentì come un vento superarlo sulla destra e qualcosa di massiccio e scuro gli si parò davanti.

Branaghan ristette e cercò di capire cosa stesse succedendo.

D’un tratto l’oggetto, alto più o meno un paio di metri e largo uguale, si aprì e ne uscì una scaletta da cui scese qualcosa.

Non era un essere umano, perché non aveva gambe né braccia articolate come un uomo, ma sembrava più che altro una palla, che rimbalzava invece di camminare.

La cosa, rimbalzando appunto, arrivò davanti a lui e quella che poteva essere la testa cominciò pian pano ad illuminarsi. Poi si aprì una fessura e da lì iniziarono ad uscire suoni che l’onesto spazzino non comprendeva.

Era forse una lingua che non aveva mai sentito? Qualche dialetto dell’Idaho? O era solo il rum che continuava a viaggiare nel suo corpo e aveva raggiunto il cervello?

La cosa davanti a lui intanto continuava ad emettere suoni incomprensibili e aveva anche prenso a fare una strana danza, ballonzolando a destra e a sinistra. A Branaghan sembrava come un uomo che si altera e prenda a gesticolare vorticosamente.

La cosa indicava infatti, con corte escrescenze che uscivano dal corpo, alcuni punti tutt’attorno. Alla fine Branaghan capì che stava additando i luoghi che erano stati colpiti durante la giornata dagli oggetti scesi dal cielo.

D’un tratto la cosa smise di muoversi e di emettere suoni.

Ci fu silenzio perché anche Branaghan stava fermo e muto.

Poi la cosa riprese la sua danza e il suo vociare indistinto, sempre più frenetico e urlante e, così parve all’uomo, arrabbiato.

Ad un certo punto a Branaghan sembrò finalmente di capire qualcosa degli strani suoni che la cosa ballonzolante emetteva.

Ci mise un po’ ma alla fine fu sicuro che quell’essere, da qualunque parte dell’universo o della contea stesse venendo, stava dicendo in ua lingua che ora poteva capire:

“E allora sai che c’è? Vi abbiamo bombardato stamattina e nessuno di voi si è preoccupato di niente! Vi abbiamo bombardato a mezzogiorno e avete fatto lo stesso! Vi abbiamo colpito stasera e avete continuato a sbevazzare al bar e a guardare la TV a casa! Sai che c’è? Noi ce ne andiamo! E voi, andatevene tutti a fare in buca!”

E così dicendo, la cosa ballonzolò fino alla sfera da cui era sceso, salì la scaletta e l’oggetto scuro ripartì saettando silenziosamente.

Branaghan rimase interdetto per un po’.

Ecco chi erano quelli che avevano sparato a Bannack, si disse. Ma che volevano? Perché quel tizio era così scalmato e arrabbiato?

E quelle parole alla fine? “Andatevene tutti a fare in buca”… gli sembrava la stessa espressione umana di quando qualcuno ti manda a…

Mah, non erano affari suoi.

Per un attimo penso di andare a casa di Jeff lo sceriffo e riferirgli quello che aveva visto e sentito.

Ma poi Jeff gli avrebbe creduto? E, soprattutto, a quell’ora era in grado di capire qualcosa o il numero di birre era stato superiore a quelle che si convengono ad uno sceriffo sempre in servizio?

E poi, sinceramente, era una cosa importante?

Neanche fosse arrivata la fine del mondo…

 

 

N.B.: La città di Bannack esiste realmente e si trova proprio nel Montana, nella Contea di Beaverhead, sull’omonimo fiume Beaverhead, non lontano da Dillon, ai confini con l’Idaho. O almeno esisteva fino al 1970 quando divenne una ghost town, cioè una città fantasma. Fondata nella seconda metà dell’Ottocento fu la prima città di quella zona dove si instaurò una colonia di cercatori d’oro. Raggiunse i 3000 abitanti e divenne ben presto anche la capitale del Montana. Esauritesi le miniere d’oro, cominciò pian piano a svuotarsi fino al 1970, quando morì l’ultimo residente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

venerdì 28 ottobre 2022

Dolcetto o scherzetto?

Poiché si avvicina Hallowen e io, forse, sarò in altre faccende affaccendato, vi
anticipo il mio raccontino per questa festa inutile e anacronistica (ormai ci vuol ben altro a metterci paura! Magari una bolletta del gas...).
È un racconto datato, ormai ho smesso di andare in giro col panama bianco e il sigaro in bocca dandomi arie di scrittore dannato e squattrinato.
Ora sono rimasto solo dannato e squattrinato.

 

Dolcettoscherzetto?

(dove c'è chi scherza e chi fa sul serio - urca se fa sul serio!)


- Arghhhh - urlò il ragazzino comparendo da dietro l'angolo travestito da cardinale Ratzinger.

Lello, che stava entrando di corsa nei bagni della stazione, rimase impietrito e sentì qualcosa di caldo scendergli lungo le cosce e i polpacci e poi giù giù fin dentro le adidas nuove arancioni e nere.
- Che schifo! - urlò la donna delle pulizie col mocio in mano, guardando la pozza gialla ai piedi di Lello. - Ma proprio qua dentro dovete venire a fare queste porcherie? Tu, non potevi fare il dolcettoscherzetto come tutti? E tu, deficiente, manco avessi 2 anni, che ti pisci addosso!
Lello rimase ancora qualche secondo immobile, poi fissando il ragazzino negli occhi mise la mano sotto la giacca, torcendo il braccio dietro la schiena, tirò fuori qualcosa di compatto e lucente, lo puntò contro di lui girandolo di 90 gradi e tirò il grilletto.
Una, due, tre volte: pam! pam! pam!
Il ragazzino (che visto col senno di poi in effetti avrebbe fatto meglio a fare dolcettoscherzetto) voleva capire cosa stesse succedendo, ma ebbe solo il tempo di vedere il pavimento avvicinarsi a velocità supersonica al suo naso e poi più nulla.
- Che schifo! - urlò la donna delle pulizie, guardando la pozza rossa mischiarsi con quella gialla. - Che serata di m***a! Altro che Halloween, qui c'è solo da lavorare!
E andò a riempire il secchio d'acqua e candeggina.

Fine